ANIMA AUTENTICA

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Tesoro nascosto all’Inail: 3 miliardi inutilizzati. E gli infortuni crescono

Riprendo questo articolo pubblicato su “La Repubblica” di oggi, a firma di Valentina Conte.

Lavorando all’INAIL, per motivi che credo siano abbastanza comprensibili, non è opportuno che io prenda posizione su ciò che è scritto: potrei non essere credibile se mi scagliassi anch’io contro l’Istituto, così come potrei non essere credibile se mi scagliassi contro la giornalista che ha firmato l’articolo.

Mi piacerebbe però conoscere la posizione di chi è esterno all’Istituto ed ha avuto, direttamente come infortunato/a, indirettamente come parente e/o amico di un/una infortunato/a, un qualsivoglia tipo di rapporto con l’INAIL. Una specie di mini-sondaggio senza alcuna valenza scientifica

ROMA — L’avanzo più alto nella storia dell’Inail: 3,1 miliardi. È quanto racconta il bilancio consolidato del 2023 dell’Istituto di assicurazione contro gli infortuni sul lavoro, approvato venerdì dal Consiglio di amministrazione. Un record che trascina un altro record: oltre 41 miliardi nel conto di Tesoreria, il salvadanaio dello Stato alimentato soprattutto da Inail.

Più soldi ci sono lì, meno debito si deve fare. Meno debito significa meno aste di Btp. Ai tassi attuali, un bel risparmio per il ministro Giancarlo Giorgetti. Ma anche un’anomalia. Il maxi tesoretto Inail sorregge i conti pubblici, serve la Nazione. Molto meno la missione per cui è nato: prevenire malattie, infortuni e morti sul lavoroCresciuti ancora del 2-3% nei primi cinque mesi, come la stessa Inail ha appena certificato.

Bancomat di Stato

Già la Corte dei Conti, pochi giorni fa, stigmatizzava l’idea di Inail come bancomat di Stato: «Desta perplessità che il bilancio presenti un ingente ed improprio avanzo annuale, spesso superiore al miliardo, che poco si concilia con il perdurante fenomeno infortunistico». Siamo ormai a quasi tre volte il tesoretto additato dai giudici contabili. Rivendicato anche dai sindacati per l’assunzione di ispettori, la prevenzione e la formazione dei lavoratori.

Per queste voci Inail spende briciole, se paragonate all’avanzo monstre. È sotto organico di 1.900 unità. Ha 190 ispettori contro un fabbisogno di 300. Nel frattempo l’economia va, Pil e occupazione crescono: così i premi pagati da imprese e lavoratori che gonfiano le entrate Inail. Gli indennizzi e le rendite, cioè le uscite, invece si abbassano, anche per tetti e franchigie poco generosi, introdotti nel tempo.

Aiuti scarsi alle imprese

Gli incentivi a fondo perduto alle imprese che migliorano le condizioni di sicurezza sono il simbolo dell’inerzia di Inail. Valgono ora circa 500 milioni. Ma il “bando Isi”, come si chiama, è così lento e burocratico che nessuno sa quanti di questi soldi arrivino alle aziende. Dal 2010 al 2023 sono andati a bando oltre 3,5 miliardi. Meno della metà sarebbe stata davvero assegnata.

C’è poi lo sconto in tariffa alle imprese virtuose, più fluido del bando Isi: se investi in sicurezza, paghi un premio più basso. Qui ci sono appena 200 milioni. E meno di 30 mila imprese beneficiate l’anno scorso, su 2 milioni da coinvolgere. Quel tetto di 200 milioni poi è fermo da anni. Non si può alzare, se non si aumentano anche le tariffe. Nessun governo lo farebbe.

La tassa occulta

E questo perché le imprese ritengono già di pagare una “tassa occulta”. Tariffe abbassate nel 2019 (di un miliardo e mezzo), ma per il sistema imprenditoriale sempre troppo alte rispetto a quanto poi Inail spende in prevenzione. L’anno scorso l’Istituto ha aumentato il budget per la formazione dei lavoratori, ma da 10 a 50 milioni. Davvero un’inezia.

E pensare che Inail ha una missione ampia. Potrebbe investire in sanità, scuola, infrastrutture sociali. I soldi ci sono, 5 miliardi fermi per la sola sanità. Mancano i progetti. E nell’inazione, senza una cabina di regia anche con le Regioni, tutto si ferma. Ma il denaro non dorme mai. E finisce nelle casse del Mef, il ministero dell’Economia che ci blinda i conti.

Più titoli di Stato che prevenzione

Un equilibrio garantito da Inail in due modi. Alimentando la cassaforte della Tesoreria, come detto. Ma anche acquistando titoli di Stato. Di recente il Mef ha alzato da uno a due miliardi il plafond di acquisti di Bot e Btp. Intanto i lavoratori continuano a morire nei cantieri e nei campi, ad infortunarsi, ad ammalarsi. La sanità non funziona. Le scuole cadono a pezzi. Gli ispettori del lavoro non hanno neanche il software per fare le buste paga.

Anche a questo potrebbe contribuire Inail. Persino ad investire nell’economia reale, dagli immobili ai progetti di economia verde. Nulla di questo accade. Un problema per un Istituto che al pari dell’Inps, ora è un fortino della destra, in particolare di FdI che ha voluto Fabrizio D’Ascenzo, l’ex rettore di Economia dell’università La Sapienza, come presidente.

Non che D’Ascenzo ignori i nodi visto che nella “Relazione sulla performance 2023” elenca tra i punti di debolezza dell’Inail «l’insufficiente capacità di spesa». E tra le «minacce» i «limiti all’autonomia gestionale dell’ente» che incassa molto e spende poco.

Anche il Civ, il Comitato presieduto da Guglielmo Loy in rappresentanza di imprese e sindacati, a dicembre scriveva che il maxi avanzo è una «patologia», non fisiologia, «un’incongruenza, non un valore». E «ormai non più sostenibile». E pensare che nel bilancio preventivo l’avanzo era “solo” a 2,3 miliardi. A consuntivo siamo a 3,1 miliardi.”

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Il pilone calabrese del Ponte su una faglia attiva

Che io non sia favorevole al famigerato “Ponte” che dovrebbe unire Calabria e Sicilia, almeno per chi legge quel che pubblico, credo sia cosa nota. Oggi si apprende, da un articolo pubblicato su “la Repubblica” a firma di Alessia Candito, che riporto integralmente, che il pilone del lato continentale poggia su una delle faglie sismiche attive sulla costa calabrese. Esattamente uno dei motivi di perplessità sulla opportunità di sperperare soldi pubblici in un progetto che presenta lacune su lacune, a cui la stessa società “Stretto di Messina” ha difficoltà a rispondere nel merito. E’ normale a questo punto chiedersi: perchè ci si intestardisce su questo progetto? E’ solo per la mania di grandezza del ministro Salvini? E’ per incompetenza? Per qualcos’altro che non sappiamo o che non siamo in grado di immaginare?
Buona lettura
Ponte sullo Stretto, nuovo allarme: “Il pilone calabrese sulla faglia attiva”
di Alessia Candito
Che la società Stretto di Messina da decenni immagini di piazzare il Ponte nella zona più sismica del Mediterraneo è cosa nota. Ma che il futuro pilone calabrese, così come i punti di ancoraggio, quanto meno da progetto, poggino esattamente su una faglia attiva è dettaglio inedito. «Una scelta tecnicamente senza logica» per l’ingegnere Paolo Nuvolone, che per il Comune di Villa San Giovanni si occupa da consulente volontario del ripascimento e recupero delle coste e adesso, insieme a due geologi, sta lavorando a una relazione tecnica che l’amministrazione della città ha intenzione di consegnare in tempi brevi alla commissione del ministero dell’Ambiente che dovrà valutare il progetto.
Sono gli stessi tecnici che con 42 pagine fitte di oltre 240 osservazioni, richieste di integrazioni e correzioni hanno rispedito al mittente il faldone aggiornato, messo insieme e presentato dalla Stretto di Messina. Una mole di materiale — ha finito per ammettere l’ad della società, Pietro Ciucci — che ci vorrà un po’ per produrre. «Almeno quattro mesi», ha detto a denti stretti, con consegna annunciata per «metà settembre 2024».
E che rischia di slittare a data da destinarsi se i tecnici dovranno provare a immaginare una soluzione al problema della faglia. O meglio delle faglie, perché in zona ce ne sono cinque. Tutte attive. E tutte non solo sono perfettamente identificate, con tanto di nome, coordinate e localizzazione, persino visualizzabili su mappa sul sito dell’Ispra, che ne racconta storia e caratteristiche.
Tutte quante dovrebbero essere assolutamente conosciute al ministero dei Trasporti di Matteo Salvini, che del Ponte ha fatto il suo cavallo di battaglia. Nel 2008, Ithaca, il progetto di microzonazione che le ha mappate, lo ha voluto proprio il Mit.
Avrebbe dovuto essere uno strumento per mettere in sicurezza il territorio, evitare la cementificazione di aree a rischio, anche obbligando le amministrazioni a bloccare nuove edificazioni, recuperare quelle già costruite e addirittura mettere in cantiere lo spostamento di infrastrutture.
Peccato che a sito pubblicato e risultati noti proprio nella zona attraversata da una delle faglie sia stato piazzato quello che a Villa San Giovanni si conosce come “il sarcofago” o “catafalco”. Nelle intenzioni, un raccordo necessario per spostare la ferrovia e far spazio al futuro pilone. Di fatto è rimasto un mozzicone di galleria affacciato sul nulla. E per un tecnico, che sia stato piazzato lì dove la terra si muove ancora, è visibile a occhio nudo. «La scarpata che si vede a ridosso della variante è chiaramente un prodotto di faglia», osserva Nuvolone.
Quello che non è spiegabile, sottolinea, è «come sia stato approvato quel progetto. Secondo le linee guida contenute nella relazione di accompagnamento al censimento e la normativa che in seguito è stata prodotta, in quella zona non avrebbero potuto costruirci neanche una casetta, figuriamoci una maxiopera come il Ponte».
Motivo? La faglia è una spaccatura risultato di un antico movimento sismico e negli anni — anzi, nei secoli — non rimane uguale a se stessa. Continua a muoversi. La più pericolosa della cinque che ricadono nella zona di Villa San Giovanni si chiama “Cannitello”, ma va molto oltre l’area sottostante l’omonimo salotto buono estivo della città. «È il risultato del devastante terremoto del 1783, quando crollarono otto fronti di montagna tra Scilla e Punta Pezzo. In questa zona la collina si è letteralmente spaccata in due ed è esattamente lì che dovrebbe essere collocato il pilastro calabrese del Ponte».
Un’altra faglia passa in prossimità di Forte Beleno, nella parte alta della città, dove — quanto meno da progetto — dovrebbero esserci i cosiddetti “punti di ancoraggio” del Ponte. E queste sono solo alcune di quelle attive in zona.
Com’è possibile che non siano neanche menzionate nel progetto presentato dalla società Stretto di Messina? Che qualcosa non tornasse sull’aspetto sismico, i commissari del ministero se ne sono accorti subito. Non a caso alla società hanno chiesto di presentare studi, proiezioni di scenario e modelli di rischio in caso di terremoti e maremoti che interessino tutta la futura zona di cantiere. Ma a Villa San Giovanni c’è preoccupazione. E si è deciso di accelerare.
Tra lunedì e martedì dovrebbe essere formalmente presentato l’elaborato che individua tutte le faglie, mostra come di fatto siano in larga parte sovrapponibili ai cantieri e segnala i rischi collegati. Ma la sindaca Giusy Caminiti già si è mossa. Nel corso di un’interlocuzione informale con i tecnici della commissione Via ha annunciato la produzione della nuova relazione e anticipato in parte i contenuti. E avrebbe provocato non poco scompiglio. Commenti ufficiali non ce ne sono, ma nei corridoi si sussurra: «Alla “Stretto” dovranno quanto meno provarci a spiegare in modo logico il perché si insista nel piazzare un’opera dove non si può costruire».”
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