Archivi del mese: Ottobre 2020

Se nasci in Calabria

Se nasci in Calabria, tienine conto. La Calabria è monoteista, non ammette altre divinità fuor che se stessa. La Calabria è una mamma ebrea, un precetto islamico, un Dio veterotestamentario. Ama in modo assoluto e così vuole essere riamata, pretende fedeltà, è previdente e vendicativa. Si segna al dito non se l’hai dimenticata – è del tutto impossibile tu possa riuscirci – ma se hai provato a farlo, prendendo un altro accento, un’altra lingua, cambiandoti il cognome, mettendoti allo studio o al lavoro nel più remoto paese del mondo. Dalla Calabria non si parte; in Calabria non si torna. In Calabria si resta. Anche se sei andato via da bambino, anche se non hai intenzione di rimettervi piede. È uno spazio geografico dove ti trovi comunque, col pensiero di averla perduta o ritrovata, di averla conosciuta o di doverlo fare.
Se sei nato in Calabria, sai che dovrai difenderla sempre e per sempre da ogni retorica. Quella maliziosa e nera che la vuole extraStato in mano alla ‘ndrangheta; quella retorica e fanfarona che la dipinge magnogreca e colta e vittima di pregiudizi, col cambiamento prossimo a venire. Due facce della stessa menzogna, due narrazioni complementari che si garantiscono l’una con l’altra.
Se sei nato in Calabria, sai che dovrai preservare come terra sacra quel che la Calabria per te rappresenta. Una piazza, un odore, un muro di casa, uno stretto di mare, una pianta d’agave… Tu solo sai dell’elenco infinito di cose, quel che ti fa amare la Calabria anche se la odi. La Calabria è il luogo perenne di una perenne infanzia perduta: la ricordi con nostalgia comunque sia andata; la ricordi con nostalgia anche se ti è viva e presente; la ricordi come doveva essere o anche come potrebbe essere domani. Se sei nato in Calabria sai bene cos’è la nostalgia del futuro, e non bisogna spiegarlo.
Se sei nato in Calabria, te ne sei innamorato. E non vorresti mai averlo fatto; e vorresti che tutti gli altri se ne innamorassero. Vorresti la amassero in quel modo selvatico e anarchico degli amori giovani, col suo temperamento che non accetta briglia, con l’aria da abbandono e il fascino da perdente che accende il desiderio. Vorresti la conoscessero per come tu la conosci. Ma non sai dirlo.
Se sei nato in Calabria, ti dispiacerà lo stesso, comunque sia andata. Sia che tu viva da un’altra parte, sia che tu ancora ci viva. Ti sembrerà di non aver fatto abbastanza o di aver perso tutto il tuo tempo a farci qualcosa. Terra benedetta come quella di Sion, dov’è diaspora e guerra e case perdute. Terra promessa che devi mantenere, perché non sai, perché senti che è così.
Se sei nato in Calabria, salvati finché sei in tempo. Non potrai dimenticarla mai. Ricordala, allora. Ma ricordala bene, senza che altri la ricordino male per te. Il ricordo malfatto è un abbandono, il più ignobile, il più corrotto. Giustifica l’incuria dei luoghi o la nuova urbanistica che non si cura della storia.
Se sei nato in Calabria, sai come una ferita brucia: una scorticatura al ginocchio con la terra dentro. Però te la sei procurata giocando; mentre piangi guardi già il campo, l’altalena, la strada. E, presto o tardi, torni a giocare.
(Saverio Pazzano)

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Dall’interno dell’Ospedale (Massimo Giannini)

Massimo Giannini, direttore del “La Stampa”, ricoverato in terapia intensiva per Covid-19. Da leggere fino in fondo, soprattutto coloro che si ostinano a negare l’evidenza, a dire che “è tutta un’invenzione”, a coloro che pensano che non indossare la mascherina sia espressione di una presunta ribellione al sistema. Ma bisogna anche che tutti, nessuno escluso, riflettiamo sulla organizzazione del nostro “sistema Paese”, ove nessuno è mai responsabile e dove siamo campioni del mondo nello scarica-barile
Occorre snellire le procedure, non si può morire di burocrazia; bisogna che chi ha sbagliato paghi in prima persona; bisogna che chi si dimostra inadatto al ruolo che ricopre possa e debba essere rimosso subito. E sono sempre più dubbioso sulla opportunità di lasciare alle Regioni la gestione della sanità pubblica …
 
“Scusate se riparlo di me. Oggi ‘festeggio’ quattordici giorni consecutivi a letto, insieme all’ospite ingrato che mi abita dentro. Gli ultimi cinque giorni li ho passati in terapia intensiva, collegato ai tubicini dell’ossigeno, ai sensori dei parametri vitali, al saturimetro, con un accesso arterioso al braccio sinistro e un accesso venoso a quello destro. Il Covid è infido, è silente, ma fa il suo lavoro: non si ferma mai, si insinua negli interstizi polmonari, e ha un solo scopo, riprodursi, riprodursi, riprodursi. Meglio se in organismi giovani, freschi, dinamici. Questa premessa non suoni da bollettino medico: mi racconto solo per spiegare quelle poche cose che vedo e capisco, da questa parte del fronte, dove la guerra si combatte sul serio. Perché la guerra c’è, se ne convincano i “panciafichisti di piazza e di tastiera”, e si combatte nei letti di ospedale e non nei talk show.
Quando sono entrato in questa terapia intensiva, cinque giorni fa, eravamo 16, per lo più ultrasessantenni. Oggi siamo 54, in prevalenza 50/55enni. A parte me, e un’altra decina di più fortunati, sono tutti in condizioni assai gravi: sedati, intubati, pronati. Bisognerebbe vedere, per capire cosa significa tutto questo. Ma la gente non vuole vedere, e spesso si rifiuta di capire. Così te lo fai raccontare dai medici, dagli anestesisti, dai rianimatori, dagli infermieri, che già ricominciano a fare i doppi turni perché sono in superlavoro, bardati come sappiamo dentro tute, guanti, maschere e occhiali. Non so come fanno. Ma lo fanno, con un sorriso amaro e gli occhi: ‘A marzo ci chiamavano eroi, oggi non ci si fila più nessuno. Si sono già dimenticati tutto…’ Ecco il punto: ci siamo dimenticati tutto.
Le bare di Bergamo, i vecchi morenti e soli nelle Rsa, le foto simbolo di quei guerrieri in corsia stravolti dal sacrificio, i murales con la dottoressa che tiene in braccio l’Italia ammalata, l’inno dai balconi. Possibile? Possibile. La vita continua, persino oltre il virus. E allora rieccoci qui, nella prima come nella seconda ondata, a litigare sulle colpe, a contestarci i ritardi. Come se la tragedia già vissuta non ci fosse servita. L’ho scritto da sano e lo ripeto da malato: le cose non stanno andando come avrebbero dovuto. Ripetiamo gli errori già fatti. Domenica, dopo il mio editoriale in cui lo ribadivo, mi ha chiamato il ministro Speranza per dirmi che è vero, ‘però guarda i numeri dei contagi negli altri Paesi’. Mi ha chiamato il governatore De Luca per protestare e dire che quelle sui disastri dei pronto soccorsi in Campania sono tutte “fake news”. E poi mi hanno chiamato da altre regioni per il caos tamponi, e dai medici di famiglia per dire che loro sono vittime, e poi dai Trasporti per obiettare che sugli affollamenti loro non c’entrano. E poi, e poi, e poi.
E poi il solito scaricabarile italiano. Dove tutti ci crediamo assolti, e invece siamo tutti coinvolti. Dopo il disastro di marzo-aprile dovevamo fare 3.443 nuovi posti letto di terapia intensiva e 4.200 di sub-intensiva, ma ne abbiamo fatti solo 1.300: di chi è la colpa? Mancano all’appello 1.600 ventilatori polmonari, dice il ministro Boccia: di chi è la colpa? Dovevamo assumere 81 mila tra medici infermieri e operatori sanitari, ma al 9 ottobre ne risultano 33.857, tutti contratti a termine: di chi è la colpa? L’odissea tamponi al drive in è una vergogna nazionale, in una regione come il Lazio dura da mesi e ancora non è chiaro quali strutture private siano abilitate a fare che cosa, tra antigienici e molecolari, e mentre famiglie con bambini fanno le file di notte in automobile, un assessore che Zingaretti farebbe bene a cacciare domattina stessa vaneggia di “psicosi”: di chi è la colpa? E scusate se vi riparlo di me: ho infettato anche mia madre, novantenne, malata oncologica, vive sola, come migliaia di anziani, eppure non c’è servizio domiciliare che possa supportarla né medico di base che vada a visitarla, ‘sa com’è, non abbiamo presidi, ci danno cinque mascherine chirurgiche a settimana’: di chi è la colpa? Ne parlo con i dottori dell’ospedale. La risposta è durissima: noi siamo qui in trincea, ogni giorno, in questi mesi ci hanno dato l’una tantum Covid da 500 euro lordi e cari saluti, i nostri colleghi “sul territorio” chi li ha visti?
Non recrimino, non piango. Vorrei solo un po’ di serietà. Vorrei solo ricordare a tutti che anche la retorica del «non possiamo chiudere tutto» cozza contro il principio di realtà, se la realtà dice che i contagi esplodono. Se vogliamo contenere il virus, dobbiamo cedere quote di libertà. Non c’è altra soluzione. Chiudi i locali notturni? Fai il coprifuoco? Aumenti lo smartworking? Ci sarà un conto da pagare, è evidente. Il lockdown totale di inizio 2020 ci costò 47 miliardi al mese e un dimezzamento di fatturato, valore aggiunto e occupazione nazionale. Oggi non dobbiamo e non vogliamo arrivare fino a quel punto. Ma qualcosa in più di quanto abbiamo fatto con l’ultimo Dpcm è doveroso. Chi subisce perdite ulteriori dovrà essere risarcito. Il governo ha risorse da reperire, se solo la piantasse di tergiversare sul Mes o non Mes. Aziende e sindacati hanno interessi da condividere, se solo la finissero di inseguire un assurdo conflitto sociale a bassa intensità. La pandemia sta accorciando ancora una volta il respiro della nostra democrazia. Provare a impedirglielo tocca solo a noi. Scambiando la rinuncia di oggi con il riscatto di domani. Ma per poterci riuscire abbiamo bisogno che governo, regioni, autorità sanitarie e scientifiche si muovano come un “corpo” unico e visibile, un dispositivo coerente e credibile di atti, norme, parole. Non lo stanno facendo. Anche per questo siamo confusi e impauriti. ‘Andrà tutto bene’ non può essere solo speranza. Deve essere soprattutto volontà.”

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Elezioni comunali Reggio Calabria 2

Giuseppe Falcomatà rieletto sindaco di Reggio Calabria, dopo il ballottaggio contro Antonino Minicuci, candidato della destra, scelto personalmente da Matteo Salvini
Premessa necessaria: pur essendo di sinistra, fossi stato a Reggio al primo turno non avrei votato Falcomatà. Pur con tutte le difficoltà di bilancio (tanti reggini sembrano aver dimenticato la voragine nei conti del Comune lasciati dopo gli anni di governo del centro-destra), pur considerando l’inesperienza ci si aspettava di più, a cominciare da una migliore scelta dei collaboratori.
Ma, una volta arrivati al ballottaggio, non avrei avuto dubbi. Reggio non poteva diventare la bandierina della Lega al Sud. Ma soprattutto Reggio non poteva essere messa nelle mani di Minicuci. Non lo conoscevo ma è bastato seguire il confronto pre-elettorale per comprenderne lo spessore e le qualità. E’ riuscito nell’impresa ardua di far apparire Falcomatà un gigante della politica, quasi uno statista, il che è quanto dire
Mi auguro che le parole che il Sindaco oggi ha pronunciato di fronte ai suoi sostenitori siano seguite da atti concreti, ad iniziare dalla scelta degli assessori. Sarebbe bello se fossero espressione della società civile e non dei partiti. Non trascuri, signor Sindaco, che le liste civiche indipendenti hanno raccolto oltre il 10% dei voti. E non sto considerando la lista della Marcianò, che ha preso il 13%, e che ha raccolto comunque il dissenso di altri scontenti
Un’ultima considerazione, giusto per tenere i piedi ben saldi a terra e non intonare inni trionfalistici. Non ha vinto Falcomatà, ha perso la destra reggina, incapace di proporre un suo candidato, spaccata in lotte intestine fra malati di protagonismo, arrivata al punto di farsi imporre da Salvini un candidato che con Reggio c’entra come il parmigiano su una frittura di pesce
 

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