Archivi del mese: Dicembre 2020

Siringhe a rotelle (di Marco Travaglio)

Non amo particolarmente Marco Travaglio, ma questo articolo, trovato sulla pagina Facebook di una collega, merita di essere diffuso. Mi aspetto anche che altre persone, che hanno “trattato” nelle scorse settimane i temi di cui parla Travaglio, abbiano la onestà intellettuale di rettificare i loro precedenti post (mentalmente mi sono risposto in dialetto: “pigghiulu”)

 
CAZZARI A ROTELLE
di Marco Travaglio
A furia di sentirlo ripetere a reti ed edicole unificate, pensavamo che in Italia il vaccino non sarebbe arrivato per colpa di quei dementi di Conte, Speranza e Arcuri, che lo promettevano a fine 2020, mentre l’avremmo visto fra uno-due anni. Invece oggi siamo a 480mila dosi. Allora dicevano: sì, ma non avremo le siringhe per colpa di quei dementi di Speranza e Arcuri.
“Il mondo fa scorta di siringhe. L’Italia rischia di restare senza aghi per il vaccino” (Stampa, 9.11).
“Vaccino senza siringhe: ‘Ordini da tutta Europa, ma non dall’Italia’” (Luciano Capone, Foglio, 18.11).
“Vaccino anti-Covid, Italia senza siringhe? Arcuri: ‘Non so dirglielo’. Gelo in conferenza stampa” (Libero, 19.11).
Invece sono arrivate pure le siringhe. Allora si è detto: sono quelle sbagliate, costano troppo e sono introvabili. Colpa di quel demente di Arcuri che, invece di fare scorta nella farmacia sotto casa, s’è fissato – chissà con quale tornaconto – con le “luer lock”. “Arcuri paga le siringhe a peso d’oro. Le luer lock costano 14 volte di più di quelle scelte dagli altri paesi Ue” (Mario Giordano, Verità, 10.12).
“Le siringhe a rotelle e altri nonsense di Napoleone Arcuri” (Christian Rocca, Linkiesta, 11.12).
“‘Niente tappi alle siringhe’: un nuovo flop di Arcuri?” (Giornale, 16.12).
“Vaccino: Arcuri fa il buco con le siringhe” (Nicola Porro, 19.12).
E giù battutone sulle “siringhe a rotelle”. E giù puntatone di Diritto e rovescio (Del Debbio), Quarta Repubblica (Porro), Non è l’Arena (Giletti) sulle “siringhe d’oro”.
E giù tweet di Calenda (“Arcuri va licenziato”), Salvini (“Mancano milioni di siringhe… Visto lo ‘storico’ di Arcuri, evitiamo di dover nominare un nuovo commissario agli aghi e alle siringhe a marzo”) e interrogazioni di Lega e Fd’I.
Ora si scopre che a raccomandare le “luer lock” è il bugiardino di Pfizer, infatti tutta l’Ue ha acquistato quelle (ma non erano introvabili?), che non costano né il doppio né 14 volte quelle normali, ma pochi cent in più.
Londra invece, furba lei, ha preso le standard (“luer slip”). Ora l’Aifa ha autorizzato l’estrazione di 6 dosi anziché 5 da ogni fiala Pfizer, cioè ad avere un 20% di vaccini gratis ogni cinque già acquistati, ma solo se la siringa è la famigerata “luer lock” di quel demente di Arcuri (che evita sprechi di siero residuo e consente di recuperarli per la sesta dose).
Cosa che potranno fare l’Italia e gli altri paesi Ue e non il Regno Unito (salvo che ricompri tutte le siringhe). Risultato: le fiale Pfizer acquistate dall’Italia per 26,5 milioni di italiani vaccinati in sei mesi con 5 dosi ciascuna serviranno a vaccinarne 31,8 (5,3 in più).
Con un risparmio di 63 milioni di euro che, detratti gli 1,7 milioni di costi in più per le “luer lock”, fanno 61,3 milioni pubblici guadagnati.
Si attendono le scuse dei cazzari a rotelle.
Fatto Quotidiano – 30 dicembre 2020

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Ricordo del terremoto del 1908

Di Lidia Barone: “Quando mia nonna fu svegliata dal terremoto, alle 5.20 del 28 dicembre 1908, la casa si era già aperta come una pesca troppo matura: metà era crollata su una parte della famiglia, l’altra era rimasta in piedi. Così mia nonna, di anni 11, divenne in 37 secondi (tanto durò la scossa) capofamiglia in via temporanea: se Turi, di anni 14, al momento sepolto dalle macerie del soffitto, fosse sopravvissuto, sarebbe stato lui l’uomo di casa. Per il padre, come mia nonna ebbe modo di constatare dopo aver affannosamente tentato di togliergli di dosso calcinacci e travi, con l’aiuto delle sorelle Nina, di anni 9, e Tota, di anni 6, non c’era ormai molto da fare: morì dopo un paio di ore. La mia bisnonna ebbe la fortuna di morire all’istante, schiacciata da travi e tegole con i due figli minori. La casa era al terzo piano, quindi le bambine non riuscirono a scendere a terra, e si misero ad aspettare che qualcuno le tirasse giù. Mia nonna ricordava, ma chissà se è vero, che passò di lì uno zio paterno, e che tutt’e tre si misero a gridare, ma lo zio alzò appena gli occhi e continuò a camminare. Le bambine aspettarono fino alla mattina del 29, quando i marinai della Marina imperiale russa le presero in braccio e le portarono via. Mia nonna, nella sua veste di capofamiglia, non volle andarsene prima che il fratello fosse tirato fuori dalle macerie: quando lo disseppellirono aveva il viso nero e tumefatto, la bocca e il naso pieni di terra e le costole rotte, ma era ancora vivo. Così mia nonna raggiunse le sorelline, mentre Turi rimase ad aspettare che la prima nave ospedale attraccasse, all’alba del 30 dicembre. Tutt’e tre erano ancora in camicia da notte, ma erano riuscite a racimolare qualche coperta e se l’erano buttata addosso. I russi, che scavano senza sosta per disseppellire morti e feriti, avevano distribuito tutto il cibo di cui disponevano, ma ormai chi era rimasto vivo non mangiava da due giorni, e qualcuno cominciava a rubare quel poco che c’era a mano armata. Rubavano a man bassa anche gruppi di contadini, arrivati dall’entroterra per razziare tutto ciò che si poteva trovare tra le macerie delle case più ricche, mentre i detenuti evasi dalle carceri crollate frugavano tra le rovine della Banca d’Italia. La legge marziale, immediatamente instaurata, portò a molte esecuzioni sul luogo, senza distinzioni tra ladri di gioielli, ladri di pane o sopravvissuti che rovistavano nelle macerie delle proprie case. Le tubature del gas erano state divelte dal terremoto: bracieri e cucine economiche avevano fatto il resto, e in città divamparono incendi dovunque Le spiagge, devastate dal maremoto, erano coperte da scheletri di barche, macerie e quintali di pesci morti. Il mare, a Pellaro e Lazzaro, due borghi a sud della città, si riprese per sempre decine di metri di costa. Ancora oggi, sui fondali, si vedono i pavimenti a mosaico delle case distrutte. Migliaia di corpi furono trascinati al largo, e i giornali dell’epoca, dopo settimane, riportarono cronache raccapriccianti di membra umane trovate nello stomaco degli squali pescati nello Stretto. Il governo Giolitti deliberò che le macerie di Reggio e Messina fossero cannoneggiate e le due città ricostruite altrove.
Mia nonna fu imbarcata con le sorelle su una grande nave, con un cartellino con nome e cognome al collo: la comunità di emigrati calabresi e siciliani in America si era offerta di adottare agli orfani del terremoto, e la nave stava per salpare. Quando mia nonna seppe che stava andando in America per trovare nuovi genitori, prese per mano Nina e Tota e le fece scendere di corsa, perché non potevano partire senza Turi. Però non sapevano cosa fare: la città brulicava di orfani, e ognuno già non sapeva come fare per sfamare i propri figli, figuriamoci quelli degli altri. Intanto erano arrivate le prime colonne di soccorso da Cosenza e le corazzate da Napoli, erano arrivati Vittorio Emanuele e la regina Elena su una nave ospedale. Appena un minimo di collegamenti furono ripristinati, con mezzi di fortuna da Gioia Tauro in giù, arrivò in città l’ingegnere Marchi, che mio nonno aveva conosciuto nel corso di un difficile collaudo, e con cui era rimasto in rapporti di buona amicizia. L’ingegnere viveva a Parma, da dove aveva chiesto invano notizie dell’amico. Quando gli dissero che nessuno aveva modo e tempo di stilare liste delle vittime, e che i registri anagrafici erano andati perduti prese un treno e, in qualche modo, arrivò in città, dove gli dissero che sì, Gioacchino Vazzana era morto con la moglie e due figli, lasciandone altri quattro che nessuno voleva, neanche i parenti ancora vivi. Così l’ingegnere, che aveva lasciato la moglie e le figlie per convivere con una ragazza di cui si era innamorato quando lavorava come operaia nella sua fabbrica di burro e con cui aveva avuto un altro figlio, che era considerato un libertino e un pubblico peccatore e, in quanto tale, era stato messo al bando dalla buona borghesia di Parma, fece quello che imponeva l’umana pietà: disse a mia nonna di tenere per mano Nina, prese Tota in braccio, cercò un mezzo per arrivare a Gioia Tauro, e partì per Napoli, dove comprò vestiti e biancheria per le bambine e raggiunse Turi, che era arrivato con la nave ospedale e sarebbe rimasto ricoverato per parecchi mesi. Arrivarono a Parma: le bambine entrarono in collegio, ma passavano le vacanze in casa Marchi, e Turi entrò all’Accademia militare. Mia nonna tornò a Reggio dopo il matrimonio, e quando mio nonno costruì la casa dove adesso abito, pretese che fossero usate le più avanzate tecniche antisismiche. Speriamo che funzionino anche adesso.”

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Na fiaba nira (di Teresa Zaccuri)

28 Dicembre 1908: Un terremoto, accompagnato da un maremoto altrettanto devastante, distrusse le città di Reggio C. e Messina, causando un numero di vittime stimato tra le 90mila e le 120mila. Sono passati 112 anni da quel giorno terribile. Nonna mi raccontava che la maggior parte dei morti, a Reggio, fu causata dall’onda di tsunami successiva al terremoto con il mare che arrivò fino a Piazza Castello. Senza dimenticare che davanti al Tempietto, a circa 50 metri dalla riva, ci sono le rovine dell’antico rione dei pescatori
 
 
 
 
 
 
 
Questa poesia, scritta dalla poetessa Teresa Zaccuri, è dedicata a tutti coloro che vivono ed hanno vissuto il furore della “terra che trema”
 
‘Na “fiaba”nira (28 dicembre 1908)
Curri, Teresa! Prestu, figghia! Fui…!
Gridau me’ patri ddha matina ‘i luttu!
E poi da’ testa,tutti i me’ ricordi,
pacci, fujru a pezzi, spasuliati.
Né, dopu, ‘i ritruvai…! Sicuramenti
rristaru ssutterrati ‘nte maceri
stivati assiemi a la desolazioni.
L’unicu lampu chi rristau ddhumatu,
n’to scuru ‘i ddhu vacanti disperatu,
era di mia, nucenti figghioleddha,
cugghiuta ‘nta ‘nu pizzu da’ cucina
cu ll’occhi strhitti, ‘i mani supra ‘a testa,
e c’a facci scacciata ‘nte ginocchia!
‘I bbuci ‘i ‘nu nimali nzerbaggiutu
‘nto’n Tempu senza Tempu, troppu longu!
E poi… cchiù nenti! ‘Nu silenziu ‘i schiantu.
Comu ‘nto’n cimiteru a nutti funda.
Senza sciatari, jeu, firmai ‘u rrispiru
e, chianu chianu, mi vistia ‘i curaggiu:
l’occhi jzai pi’ll’aria, e… chi ti vitti??
‘Nu cielu ‘i stiddhi supra a la me’ casa!
Stiddhi ‘nfamuni. Friddi. Di dicembri.
Cchiù ‘nfami ‘i tutti, chiddha cu la cura,
chi pochi jorna avanti ‘lluminava
canti, nuvini, preci e ciarameddhi
chi a Gloria si spandivanu ‘nta ll’aria
a onori di lu Santu Bambineddhu.
Steddhazza traditrici, nesci fora!!!Ma chi Natali ‘i focu priparasti?!?
No! Non è giustu! Già stava ‘nzunnandu‘a cena ‘i capu ‘i ll’annu
chi nuciddhi,chi fica sicchi, chi castagni o’ furnu,
coccia ‘i racina ‘mpassuluta e duci,‘
u bbroru du jaddhuzzu chi pascimmu
‘nto nostrhu jaddhinaru arretu a’ casa…!
Steddhazza bbrutta! ‘Nfaccia, s’hai curaggiu!
Nesci, bastarda! Varda chi facisti!
arda chi cumbinasti supra a Rriggiu!!!
E poi ciangia! Ciangia non sacciu quantu…
Ciangia ‘i duluri, ‘i rraggia e ‘i cuntintizza:
circai pirdunu pi’ jastimi ‘i prima
e u Bambineddhu Santu ringraziai,
chì mi sarbau cu’ tutta ‘a me’ famigghia;
sinnò a ccam’ora, niputeddha mia,
‘sta speci ‘i “fiaba” nira n’a cuntava,
né nc’eri tu, davanti a ‘stu braceri,
ssittata chi t’a senti a bucca aperta!
Quandu sì randi, cuntala ‘e to figghi,
p’amuri mi si sapi chi ‘sta Rriggiu
patìu, murìu, e surgìu com’ò Signuri!
Teresa Zaccuri
<<Corri, Teresa, presto figlia, scappa!>> / Grido’ mi padre quella mattina di lutto!>> / E poi, dalla testa, tutti i miei pensieri / pazzi, sono scappati a pezzi, dispersi. / Nè dopo li ho ritrovati!… Sicuramente / sono rimasti sepolti sotto le macerie / accumulati stretti insieme con la desolazione. / L’unico flash che rimase acceso, / nel buio di quel vuoto disperato, / era di me, innocente ragazzina, / raccolta in un angolo della cucina / con gli occhi stretti, le mani sulla testa / e col viso schiacciato tra le ginocchia!/ Le urla di un animale selvaggio / in un Tempo senza Tempo, troppo lungo! / E poi… più nulla! Un silenzio da paura, / come in un cimitero a notte fonda. / Senza dir nulla, io, fermai il respiro / e piano piano mi feci coraggio: / gli occhi alzai per aria, e… cosa vidi??? / Un cielo di stelle sopra la mia casa! / Stelle infamone. Fredde. Di dicembre./ Più infame di tutte, quella con la coda, / che pochi giorni prima illuminava / canti, novene, preghiere e zampogne / che a Gloria si spandevano nell’aria / in onore del Santo Bambinello. / << Stellaccia traditrice, esci fuori!!! / Ma che Natale di fuoco hai preparato? / No. Non è giusto! Già stavo immaginando / la cena di capodanno con le nocciole, / i fichi secchi, le castagne al forno, / chicchi di uva passa e dolci, / il brodo del galletto che pascemmo / nel nostro gallinaio, dietro casa…! / Stellaccia brutta! Affacciati, se hai coraggio! / Vieni fuori, bastarda! Guarda che hai fatto! / Guarda che hai combinato sopra Reggio!>>. / E dopo piansi! Piansi non so quanto! / Piansi di dolore, di rabbia, di contentezza: / cercai perdono per le bestemmie di prima / e il Bambinello Santo ringraziai, / che mi aveva salvato con tutta la mia famiglia; / altrimenti, a quest’ora, nipotina mia, / questa specie di fiaba nera non avrei potuto raccontare, / nè ci saresti stata tu, davanti a questo braciere, / seduta ad ascoltare a bocca aperta! / Quando sarai grande raccontala ai tuoi figli, / perchè si sappia che questa Reggio / ha sofferto, è morta ed è risorta come il Signore!

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