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Portate quel giudice in un Pronto Soccorso

Riporto per intero quanto scritto. Non c’è bisogno di aggiungere nulla: è tutto maledettamente chiaro
 
Da “La bottega del Chirurgo”
Portate quel giudice in un Pronto Soccorso. Quello che ha condannato ad un anno di reclusione uno specializzando, colpevole di aver dimesso una donna dal Pronto Soccorso con una diagnosi errata. La donna, dopo alcuni giorni, è morta di infarto. Per il giudice, il medico “ometteva di indagare i sintomi…non si atteneva alle raccomandazioni…non seguiva la buona pratica clinica in emergenza”.
In emergenza?
Portate quel giudice in un Pronto Soccorso.
Conducetelo per mano. Adagio. Con animo distensivo ed invitante… come si fa con chi deve necessariamente apprendere qualcosa di nuovo, o deve essere persuaso ad esplorare luoghi ignoti. Accompagnatelo per tutto il percorso. Calatevi negli inferi insieme a lui. Immergetevi in tutti gli angoli e gli anfratti di quel brulicante piano terra. Senza fretta. A dispetto della confusione, del fracasso, della baraonda che troverete in quel posto dimenticato da Dio, voi fatelo lentamente. E spiegategli ogni cosa. Illuminatelo. Siate come Virgilio che accompagna Dante nei meandri dell’inferno. E come Virgilio – guida prescelta, piena di saggezza e di paterna sollecitudine – siate rassicuranti nei confronti di quel Dante… sbigottito dalle atrocità via via rivelate dinanzi ai suoi occhi.
Indicate a quel giudice, prima di tutto, il “triage”: l’enorme vetro infrangibile contro il quale nessuno si fa scrupolo di urlare e battere i pugni perchè vuole essere visitato subito. Eccetto chi sta troppo male per urlare o battere i pugni: quelli – gli ammalati gravi – sono sempre i più silenziosi.
Invitate quel giudice a contare i pazienti che sono in sala d’attesa. Poi fategli notare il numero dei medici in servizio. Spiegategli che, in proporzione, ogni medico, nel giro di poche ore, dovrà visitare cinquanta persone. E per ognuna di esse chiedere esami, chiamare dei consulenti, fare una diagnosi, eseguire una terapia, giungere ad una dimissione o – se trova un posto letto – ad un ricovero. Dovrà intraprendere, elaborare e concludere un percorso. Senza fallo. E mentre fa tutto questo, dovrà scriverlo… con chiarezza, completezza e precisione (il giudice annuisce… perchè questo lo sa bene: bisogna essere precisi e scrivere bene ogni cosa!).
Sussurrate all’orecchio del giudice che, fin dai tempi di Ippocrate, la visita ad un paziente richede tempo, concentrazione, distensione e dedizione… E’ essenziale, per evitare di fare errori.
Mostrategli poi la postazione del “codice bianco”, il numero impressionante di persone in attesa di una prestazione che è per definizione “non urgente”, e per la quale esisterebbero decine di altre strutture o figure professionali preposte e dedicate. Fategli comprendere che il Pronto Soccorso è diventato la destinazione ultima di ogni domanda di salute inevasa. Non più il luogo ove recarsi per risolvere un problema di salute urgente, ma il luogo ove ci si reca quando non si sa più dove altro andare per risolvere qualsiasi problema di salute…
Fategli notare che in fondo, in Pronto Soccorso, nessuno viene mandato via… ed ogni prestazione medica, per quanto impropria, viene comunque garantita.
Additate quindi al giudice i due o tre medici in servizio: essi sono i “Malebranche”, guardiani diabolici, inquieti e tormentati, di quella bolgia infernale… Ognuno di essi inizia il suo turno di lavoro buttandosi di colpo in un’arena infestata da belve inferocite, oppure in una trincea su cui piovono le bombe, oppure in un luogo di tortura medievale. Neppure il tempo di occupare la propria postazione, e viene mitragliato da un “fuoco di fila” di fogli, voci, urla, squilli di telefono, domande insistenti, triagisti esitanti, infermieri trafelati, pazienti sofferenti in balia di terapie giudicate inefficaci, pazienti insofferenti in attesa della dimissione, dipendenti ospedalieri che – senza pietà – chiedono, per il proprio parente, di saltare la fila.
Fate notare al giudice quanto sarebbe bello, per il medico, avere l’autorità di dire “Silenzio in aula!”.
Domandategli se, a suo giudizio, esiste oggi un ambito lavorativo che sia paragonabile a quello per intensità di lavoro, stress psico-fisico, tensione emotiva e logorìo mentale.
Senza indugio, entrate poi nel vivo della giornata insieme a lui… siete appena all’inizio!
Indicategli quel paziente che si butta a terra, in preda ad un attacco di panico. Sarà reale o simulato?
Oppure quello che viene tutte le sere, perchè non riesce a dormire.
O quell’energumeno che sta per afferrare il medico per il bavero del suo camice, perchè pretende i giorni di malattia…
Oppure quell’altro – il detenuto – che ha ingerito volontariamente una pila, pur di farsi portare in ospedale dalle forze dell’ordine, e trascorrere un po’ di tempo lontano dal carcere…
Oppure quel vecchietto ultranovantenne, allettato, defedato, con le piaghe da decubito, agonizzante, che i parenti hanno condotto in PS perchè non se la sentono di assisterlo a casa. Meglio l’ospedale, perchè “Se si può fare qualcosa…”, “Vogliamo fare tutto il possibile per salvarlo…”, “Vogliamo avere la coscienza a posto!”.
Spiegate al giudice che quei parenti stanno inasprendo terribilmente le ultime sofferenze del loro congiunto: lo hanno sradicato da tutto ciò che gli rimane (il suo letto, il suo cuscino, il suo comodino, il suo pitale…) per portarlo a morire in un inferno…
Adesso, però, rassicurate un poco il giudice: quel medico lì non sta affatto perdendo tempo al telefono, in quell’alterco così aspro ed accanito. Nonostante tutto quel lavoro, bisognerà pur rispondere al telefono, se squilla di continuo! E poi dall’altro capo c’è il radiologo, che lo rimprovera violentemente per i troppi esami diagnostici richiesti dal Pronto Soccorso… anche al radiologo quel medico deve dar conto!
E ora? Che succede? Fate notare al giudice la concitazione generale dovuta ad una telefonata che giunge in quel momento. E’ la chiamata del 118: sta arrivando un “codice rosso”. Il medico, d’improvviso, lascia ogni paziente, ogni carta, ogni incombenza. Costretto ad uno slalom rocambolesco fra braccia protese, chiazze di vomito a terra, ferite gocciolanti di sangue in attesa di essere suturate, barelle di ottantenni con l’arto inferiore extra-ruotato che attendono il ricovero da due giorni, egli corre a prepararsi nella “shock room”. Ecco… le sirene dell’ambulanza: sta arrivando un paziente gravissimo… sarà un politrauma? Un infarto massivo? Un’insufficienza respiratoria grave? Difficile, per il giudice, seguire tutti i passaggi: l’arrivo del rianimatore, il massaggio cardiaco, l’ossigeno, l’intubazione, i farmaci salvavita…
Sembra un po’ ansimante, il giudice. E diventa visibilmente insofferente se gli fate notare che in quel momento – per accontentare lui, i suoi colleghi, e le aule dei tribunali – il medico dovrebbe stare alla scrivania, a scrivere diligentemente ogni minimo particolare di ciò che sta facendo…
Meglio uscire un po’ fuori, adesso. Portate il giudice a prendere un po’ d’aria. Ma non perdete l’occasione di additargli quell’uomo che sta andando via… verso il parcheggio. Lamentava un leggero mal di stomaco da due giorni. Da diverse ore stazionava in PS, trattenuto per fare i dosaggi seriati della troponina, e ripetere l’elettrocardiogramma. Tutto negativo. E’ stato dimesso. Mentre apre la sua auto… stramazza al suolo. Va in arresto cardiaco e viene riportato in PS per essere rianimato…
Spiegate al giudice che succede anche questo. Persuadetelo, per l’amor di Dio, che non è necessariamente colpa del medico! Fategli comprendere, finalmente, che la Medicina è spesso un navigare in un mare di incertezze…
Alla fine, alla fine di tutto… indicategli lui: il medico più giovane.
E’ uno specializzando. Uno sbarbatello. E’ stato appena assunto.
Non è un mistero che nessuno vuole lavorare in un inferno come questo… Perfino il giudice sa che c’è carenza spaventosa di personale, e che da un po’ di tempo si è arrivati alla necessità inevitabile di assumere persone non completamente formate.
E’ impacciato, lo specializzando… Non sa bene come muoversi. E’ la sua prima esperienza di lavoro. Fa tenerezza. Neppure conosce bene quel programma, così farraginoso, per la gestione degli accessi… Ma è un giovane medico: è ancora un idealista! E’ ancora viva e recente la sensazione di orgoglio e di entusiasmo che lo possedeva quando ha scelto di fare medicina. E l’entusiasmo vive ancora nel suo cuore… Ancora la vita non l’ha piegato… Si rimbocca le maniche e lavora. Lavora sodo. Non ha grande esperienza. Ma di ogni cosa che vede cerca di fare esperienza. Cerca di impegnarsi. Non perde l’ottimismo. Soprattutto, non vuole perdere la passione…
Finora il giudice aveva retto bene. Ma ora sbianca in volto… ha la fronte imperlata di sudore.
Lo ha riconosciuto: è lo specializzando che ha condannato.
Fatelo. Portate quel giudice in un Pronto Soccorso.
Alla fine del suo giro, qualcosa avrà imparato. Molto più di quello che aveva appreso dalle carte processuali. Può darsi che gli venga un brivido, un lampo di sudore freddo, al pensiero di aver aggiunto alla tragica morte di una donna, la distruzione irreversibile di un giovane medico… agli albori della sua vita e della sua carriera.
Intanto quel Pronto Soccorso è ancora lì… con un medico in meno, e sempre più rassomigliante a una carneficina. Ed ogni giorno di più, sono i medici a diventare “carne da macello”.

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Direttive per i medici (secondo la Corte Costituzionale)

Facebook mi ricorda un post pubblicato qualche anno fa, ma ancora attuale, anzi, direi sempre più attuale e che credo sia opportuno riproporre. E’ una sentenza della Corte Costituzionale. Buona lettura
Nel praticare la professione medica il medico deve, con scienza e coscienza, perseguire un unico fine: la cura del malato utilizzando i presidi diagnostici e terapeutici di cui al tempo dispone la scienza medica, senza farsi condizionare da esigenze di diversa natura, da disposizioni, considerazioni, valutazioni, direttive che non siano pertinenti rispetto ai compiti affidatigli dalla legge ed alle conseguenti relative responsabilità. Il rispetto delle “linee guida”, quindi, nulla può aggiungere o togliere al diritto del malato di ottenere le prestazioni mediche più appropriate né all’autonomia ed alla responsabilità del medico nella cura del paziente … D’altra parte, lo stesso sistema sanitario, nella sua complessiva organizzazione, é chiamato a garantire il rispetto dei richiamati principi, di guisa che a nessuno é consentito di anteporre la logica economica alla logica della tutela della salute, né di diramare direttive che, nel rispetto della prima, pongano in secondo piano le esigenze dell’ammalato. Mentre il medico, che risponde anche ad un preciso codice deontologico, che ha in maniera più diretta e personale il dovere di anteporre la salute del malato a qualsiasi altra diversa esigenza e che si pone, rispetto a questo, in una chiara posizione di garanzia, non é tenuto al rispetto di quelle direttive, laddove esse siano in contrasto con le esigenze di cura del paziente, e non può andare esente da colpa ove se ne lasci condizionare, rinunciando al proprio compito e degradando la propria professionalità e la propria missione a livello ragionieristico”.
(Corte di Cassazione, sentenza 02.03.2011, n°8254)
Chissà se chi vuole imbrigliare l’attività medica con calcoli di tipo ragionieristico, esempio tot numero di visite l’ora o ipotetici tempari che dovrebbero governare il nostro essere medici, ha presente questa sentenza!

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Riflessioni di Giancarlo Addonisio sull’attuale SSN

Una notte di molti, molti anni fa, ero di guardia notturna nel mio ospedale. Mi avvisarono alle 22 dell’arrivo di un traumatizzato stradale: condizioni disperate, dissero, stai pronto. Io sono nato pronto, risposi con la mia deprecabile grinta giovanile.
Partii dall’ecografia nella sala trauma. Poi lo portarono in Tac. C’erano tutti: anestesisti, ortopedici, chirurghi generali, chirurghi vascolari, otorini. L’uomo era sfasciato dappertutto, ma proprio dappertutto. Mentre sul monitor scorrevano le immagini della TC stavano tutti dietro di me, zitti, ad ascoltare la litania di accidenti che poi, di lì a poco, avrei trascritto nel mio referto. Ma a quel punto il referto sarebbe stato inutile: avevamo già fatto il punto della situazione, ci eravamo parlati. Ognuno di noi adesso sapeva cosa fare. Eravamo una squadra, un gruppo di persone che si fidavano gli uni degli altri, ciecamente. Quell’uomo era nelle migliori mani possibili, ve lo giuro su quello che ho di più caro al mondo.
Il Paziente andò in sala. Gli passarono sopra tutti, a turno: chirurghi, ortopedici, otorini. Gli anestesisti in seconda fila, a tenerlo vivo. Intorno alle cinque della mattina il lavoro grosso era stato fatto. Mi chiamarono per dare un’ultima occhiata in ecografia: in sala operatoria c’era sangue ovunque, sembrava ci fosse appena transitata Beatrix Kiddo di Kill Bill. L’uomo, l’omone anzi, perché era grosso come un armadio a tre ante, era disteso ancora sul letto operatorio. Sembrava che dormisse.
La mattina, alle otto, il momento dello smonto, telefonai in terapia intensiva. Mi rispose la collega della notte, con la voce stravolta dalla stanchezza. Disse: È vivo, è stabile, abbiamo fatto un buon lavoro. Tornai a casa carico di adrenalina: i bambini erano all’asilo, mia moglie al lavoro, avevo tutta la mattina per me. Non riuscii a prendere sonno: tutta quell’adrenalina accumulata mi girava ancora in corpo, vorticosamente. Quell’uomo era vivo grazie all’equipe di medici che avevano passato la notte in bianco per lui. È poco, dite? Può essere. Ma se quell’uomo fosse stato vostro marito, vostro figlio, vostro padre, allora sì che avrebbe fatto la differenza. Tutta la differenza di questo mondo.
Da quella notte sono passati vent’anni ed è cambiato quasi tutto nel modo di intendere la vita ospedaliera. I medici sono diventati carne da macello. La sanità si è trasformata in un’azienda che deve fabbricare utili, dividendi e consenso elettorale. Però, siccome costa troppo, deve anche tramutarsi in qualche altra cosa, lasciare spazi, cedere terreno. Mutare natura. Ma in silenzio, senza fare troppo rumore.
E di quel gruppo di medici cosa è rimasto? Qualcuno è andato in pensione, qualcun altro è rimasto dov’era, a svolgere il suo ottimo lavoro, qualcun altro ancora ha avuto il privilegio di trovarsi a dirigere un reparto tutto suo nella pia illusione di costruire qualcosa di buono. Nel mentre, dicevo, è cambiato quasi tutto. La politica ha preso il sopravvento e tirato i cordoni della borsa. Ai nuovi medici, giunti via via a sostituire i vecchi, non piace passare le notti in bianco nel pronto soccorso o nelle sale operatorie. Meglio un lavoro impiegatizio. Meglio un lavoro da casa, se possibile. Meno responsabilità, meno rotture di scatole, più soldi in tasca. Chi è rimasto delega: meglio una Tac in più, anche se non necessaria, che una in meno. Pazienza se tra vent’anni quella Tac causerà un tumore da qualche parte. La medicina ha smesso di essere un’arte, insomma, e le manca ancora troppo per diventare una scienza esatta. Meglio non rischiare. Meglio farsi i fatti propri.
Così, adesso io mi ritrovo in piena notte con un’urgenza addominale, e spesso sono da solo. Io, il tecnico e la Tac, nel silenzio più attonito che si possa immaginare. E non dovrei nemmeno essere lì, in quel momento, perché non è più il mio ruolo, quello. Così, mentre attendo le immagini sul monitor, mi domando perché quasi tutto è cambiato, perché certa politica ha fatto fuggire i medici dagli ospedali, cosa ha fatto perdere loro la passione, l’entusiasmo divorante, il ricordo dei validi motivi per cui, molti anni prima, hanno scelto quella professione e non un’altra. Cosa li spinge a essere indifferenti verso i Pazienti, verso colleghi che in loro assenza dovranno svolgere il lavoro che per qualche futile motivo non hanno voluto portare a termine. Cosa spinga loro, ma alla fine spinga tutti, in senso generale, senza distinzione di sesso, età, censo, lavoro, a credere di essere in perenne credito col mondo. Di essere dalla parte della ragione, sempre e comunque.
Ve lo dico subito: non trovo la risposta, e a questo punto credo che non la troverò mai. La risposta forse verrà fuori quando vi recherete in ospedale e troverete solo medici pagati a cottimo, gente che quella notte è lì e la prossima chissà dove, a quante centinaia di chilometri di distanza. Quando non esisterà più un gruppo, un’equipe affiatata pronta a passare la notte in bianco per salvare una vita, una sola: quella di vostro marito, vostro padre, o vostro figlio. Oppure la risposta andrete a chiederla a certa politica: la quale risponderà che non è sua responsabilità, e che gli errori di programmazione, il numero chiuso a medicina, l’imbuto di ingresso nelle specialità, sono colpa di quelli di prima. Di quelli che hanno governato, male, prima.
Ma quelli di prima eravamo anche noi: il radiologo, l’anestesista, il chirurgo, l’ortopedico, il maxillo-facciale. Quella fantastica squadra di bravi medici, ognuno dei quali si fidava ciecamente dell’altro. Ci rimpiangerete, certo. Come ci rimpiangiamo già noi stessi, ogni giorno, ogni santo giorno di lavoro, finché durerà ancora.

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