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Sulla possibile obbligatorietà del vaccino anti-COVID

 
Interessantissima intervista a Pietro Ichino, Ordinario di Diritto del Lavoro all’Università di Milano pubblicata su “Quotidiano giuridico” e ripresa dall’edizione odierna di Repubblica.
Sono contento di leggere concetti su cui, nel mio piccolo, ho cercato di confrontarmi con amici e colleghi. Io, datore di lavoro, perchè devo mantenere fra i miei dipendenti una persona che non vuole vaccinarsi? Se dovessi far ricoverare un mio familiare, specie se anziano o comunque “soggetto a rischio” in una RSA, una clinica o un reparto di Ospedale, vorrei che tutto il personale medico e paramedico che lì lavora fosse vaccinato, altrimenti cambierei struttura. Anche perchè, se il mio familiare si infettasse con le possibili nefaste conseguenze del caso, sarebbe assolutamente certa una denuncia da parte mia nei confronti del proprietario della RSA, clinica o ospedale che sia. Analogamente, se fossi un datore di lavoro, perchè dovrei rischiare una denuncia penale se un mio dipendente, cui è stata data la possibilità di vaccinarsi, lo rifiuta? Potrebbe essere considerato un licenziamento per giusta causa, qualora io, datore di lavoro, decidessi di fare a meno dei suoi servizi per questo motivo? Chiedo agli amici giuristi …
Nel frattempo riporto l’articolo uscito su Repubblica, per chi avesse voglia di leggerlo
 
Vaccino COVID: può essere obbligatorio (di Letizia Gabaglio)
I vaccini contro Covid sono ormai una realtà: due sono quelli al momento approvati, ma altri ne verranno nei prossimi mesi. Perché la vaccinazione riesca a piegare la curva dei contagi, però, è necessario che la stragrande maggioranza della popolazione sia vaccinata: almeno il 70%, dicono gli esperti. I vaccini oggi disponibili non sono abbastanza per immunizzare tutti, lo sappiamo, da qui l’esigenza di disegnare un piano vaccinale che indichi chi deve essere immunizzato per primo. Che fare però se le persone a cui viene offerta la possibilità si rifiutano? Tanto più in futuro quando, si spera, i vaccini ci saranno in quantità? Nei mesi scorsi sono stati condotti diversi sondaggi per tastare il polso degli italiani e con risultati contrastanti. In ogni caso basterebbe che oltre il 30% si rifiutasse di farlo – così come riportava un’indagine Swg a dicembre – per non raggiungere l’immunità di comunità e quindi vanificare lo sforzo. Per risolvere la questione c’è chi invoca l’obbligatorietà, possibile solo a norma di legge, che dovrebbe quindi essere scritta e approvata dal Parlamento in tempo utile (diciamo quindi nel giro di settimane). “Certo, sarebbe auspicabile che il legislatore si assumesse fino in fondo le sue responsabilità a questo proposito”, scrive Pietro Ichino, ordinario di Diritto del Lavoro all’Università di Milano in un articolo su “Quotidiano giuridico”. “Se però questo non accade, l’inerzia del legislatore nulla toglie alla ragionevolissima possibilità che un dovere di vaccinazione nasca da un contratto tra soggetti privati”. In altre parole, nei prossimi mesi, a spingere sull’acceleratore della vaccinazione potrebbero essere le aziende, impegnate a tutelare la salute dei loro dipendenti, la sicurezza del luogo di lavoro e dei loro clienti. Vediamo come.
L’obbligo del datore
L’articolo 2087 del Codice civile obbliga l’imprenditore, pubblico o privato, ad adottare “le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”. La domanda diventa allora: nella situazione di pandemia da Covid-19 in cui ci troviamo, una fabbrica o un ufficio nel quale tutti siano vaccinati è più o meno sicura rispetto a una fabbrica o un ufficio nel quale una parte dei dipendenti non sia vaccinata? “Non c’è dubbio che secondo le indicazioni della scienza medica la prima opzione è quella che garantisce maggiore sicurezza e quindi, in ottemperanza all’articolo 2087, a seguito di attenta valutazione del rischio specifico nella propria azienda, l’imprenditore può richiedere a tutti i propri dipendenti la vaccinazione, dove questa sia per essi concretamente possibile”, dice Ichino.
Gli operatori sanitari
Chi ha il dovere di curare non può correre il rischio di essere veicolo di una malattia. Tanto più in epoca di pandemia. Ecco perché gli operatori sanitari sono la categoria in cima alla classifica dei professionisti che si devono vaccinare. L’articolo 279 del Testo Unico per la sicurezza sul lavoro dice che il datore di lavoro è obbligato a richiedere al dipendente di vaccinarsi contro il rischio di infezione derivante da “un agente biologico presente nella lavorazione”. “Se l’obbligo è esplicitamente previsto dalla legge per questo rischio specifico, è ragionevole ritenere che lo stesso obbligo gravi sull’imprenditore per la prevenzione di un rischio di infezione derivante da un virus altamente contagioso, del quale può essere portatrice una qualsiasi delle diverse persone contemporaneamente presenti nello spazio aziendale chiuso nel quale l’attività lavorativa è destinata a svolgersi”, prosegue il giurista. Non importa se il rischio viene dall’interno o dall’esterno, soprattutto nei casi in cui il datore di lavoro ha un dovere di sicurezza anche nei confronti degli utenti del servizio, come in ospedale o in una casa di cura. “Nel caso in cui il datore non richieda la vaccinazione ai propri medici e infermieri (cui pure sia data la possibilità di vaccinarsi), se dall’omissione deriverà la malattia di una persona, dipendente o paziente, l’azienda ne sarà evidentemente responsabile, allo stesso modo in cui lo sarebbe se il danno fosse derivato dal mancato rispetto di una qualsiasi altra misura di sicurezza suggerita dalla scienza, dalla tecnica e/o dall’esperienza”, spiega Ichino.
Ristoranti, trasporti, imprese
Il discorso non cambia se, invece di un ospedale o casa di cura, parliamo di un hotel, un ristorante o un mezzo di trasporto, dove gli utenti esposti al rischio del contagio, invece che pazienti, sono avventori o viaggiatori. “Ma non cambia neppure se si riferisce a un’impresa manifatturiera: anche in questo caso la responsabilità del datore di lavoro per la sicurezza di ciascuno dei dipendenti è la stessa che grava sul titolare dell’ospedale, della casa di cura, dell’albergo, o del servizio di trasporto”, sottolinea Ichino. E anche se parliamo di dipendenti pubblici, a cui anche si applica il Testo unico per la sicurezza sul lavoro.
Peraltro, la legge 27 del 2020 ha qualificato il rischio di infezione da Covid-19 come rischio di infortunio sul lavoro in ragione della sua elevata capacità di diffondersi in un ambiente chiuso, anche se c’è una sola persona portatrice del virus, e della gravità della malattia che causa: “con questa norma il legislatore ha, in sostanza, considerato il fatto stesso di lavorare in un’azienda insieme ad altre persone come causa tipica del rischio di infezione da Covid-19. Che è quanto basta perché di questo rischio il datore di lavoro debba farsi pienamente carico”, conclude il giurista.
Scuole e università
Dei contagi nelle scuole si fa un gran parlare. Insegnanti e operatori scolastici non sono fra le categorie prioritarie per la vaccinazione, a meno che non non siano “fragili” per via di malattie con cui convivono. Tuttavia, quando i vaccini saranno disponibili per tutti, possono essere obbligati a farlo? “Se la vaccinazione può essere richiesta dal datore di lavoro privato in funzione delle caratteristiche e i rischi della sua azienda, in attuazione di quanto previsto dall’articolo 2087 del Codice civile, la stessa cosa può certamente accadere nelle scuole e nelle università pubbliche”, spiega Ichino. Per le scuole statali tuttavia la direttiva deve arrivare dal Governo. Certo che la popolazione scolastica o universitaria è in gran parte formata dagli studenti, quindi per raggiungere in questi luoghi una percentuale adeguata di immunizzati bisognerebbe obbligare loro, come ha fatto la Legge Lorenzin per le vaccinazioni infantili. I vaccini a oggi autorizzati, però, non lo sono per i ragazzi sotto i 16 anni (Pfizer) e 18 anni (Moderna).
Lavoratori autonomi
Ci sono poi i lavoratori autonomi che svolgono un’attività a contatto con i clienti, come nel caso dei servizi alla persona, delle cure mediche o di quelle infermieristiche. “In assenza di una legge che stabilisca l’obbligo, potrebbero farlo gli ordini professionali”. Ma se non provvedono né il legislatore né gli ordini professionali? “Allora l’unico rimedio è che sia il singolo utente della prestazione professionale, se è convinto dell’utilità della vaccinazione per prevenire il diffondersi del contagio, a condizionare la prosecuzione della collaborazione alla certificazione dell’avvenuta vaccinazione, o quantomeno a una autodichiarazione del professionista o collaboratore”, risponde Ichino. Come dire: “se vuoi lavorare con me e per me, devi essere vaccinato; altrimenti ne cerco un altro”.
Cosa potrebbe comportare il rifiuto
Ci si può rifiutare per paura degli effetti collaterali? “Secondo me no. Come non è consentito a un muratore rifiutare le attrezzature e gli indumenti di sicurezza assegnatigli dall’azienda sostenendo che, a suo giudizio, essi sono inutili o addirittura lo espongono a un maggior pericolo”, spiega il giurista. In ultima analisi, il rifiuto alla vaccinazione potrebbe in linea teorica essere equiparato al rifiuto di una qualsiasi altra misura di sicurezza e quindi essere sanzionato anch’esso col licenziamento disciplinare. “Ma in questo momento storico non penso sia la strada migliore da perseguire; piuttosto si può cercare una soluzione in termini di smartworking, di collocazione del dipendente in una postazione isolata, oppure, quando nessuna di queste soluzioni sia praticabile, di sospensione dal lavoro fino a che la pandemia non sia cessata; senza retribuzione, perché l’impossibilità della prestazione è imputabile al rifiuto della persona interessata, quando esso non è giustificato”, conclude Ichino.

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Un ex studente del San Raffaele

Carissima Università “Vita-Salute” San Raffaele,

mi presento: sono Giacomo Gorini, un vostro ex studente, avendo conseguito la Laurea Magistrale in Biotecnologie Mediche Molecolari e Cellulari nel Settembre 2013 presso il vostro ateneo con il massimo dei voti.
Dopo gli studi, mi sono trasferito prima in USA alle porte di Washington DC, dove ho lavorato presso i National Institutes of Health (collaborando tra gli altri con il laboratorio del Dott. Fauci), poi ho conseguito un dottorato di ricerca presso l’Università di Cambridge 2019, e da allora fino a oggi lavoro presso il Jenner Institute dell’Università di Oxford. Del Jenner Institute in cui lavoro si parla molto perché stiamo mettendo a punto un nuovo vaccino contro COVID-19. 
Comunque, in questa sede, non è del vaccino che voglio parlare: durante i mesi estivi ho assistito – come tutti – a un susseguirsi di dichiarazioni errate o volontariamente fraintendibili sull’emergenza in corso da parte di vostri docenti. L’Università San Raffaele non interveniva quando suoi professori parlavano in TV di “virus clinicamente morto”, di “mutazioni delle proteine, ma non del genoma”, di irrealistiche “cariche virali” o di una mai verificata attenuazione del virus. Talvolta, i docenti richiedevano cieca fiducia della comunità scientifica italiana in onore di dati in preparazione che non sono, purtroppo, stati mai più presentati. Smentiti poi dalla realtà, ho visto gli stessi docenti ritrattare appellandosi a fraintendimenti da parte del pubblico sul messaggio originale, scaricando così la responsabilità dell’errore sulla limitata comprensione dell’ascoltatore. Sbigottito ho visto fare paragoni diretti tra decessi causati da malattie come l’infarto o il cancro e quelli causati da una malattia virale in fase pandemica. Durante tutto questo, l’Università assisteva impassibile. 
A queste affermazioni errate, pericolose e mai corrette, si è poi aggiunta la narrazione che ha definito gli scienziati “topi di laboratorio”, anche se è proprio lo sforzo unificato degli scienziati di tutto il mondo che ci sta tirando fuori da questa brutta situazione. Gli stessi scienziati che voi stessi formate nelle vostre aule. Gli stessi scienziati che hanno scelto il vostro ateneo in cerca di una professione nobile che può dare tante soddisfazioni. Gli stessi scienziati che ispirano i bravi studenti che vogliono fare ricerca senza essere additati dai loro stessi docenti come “topi di laboratorio”.
Ho sempre pensato che una università, e in particolare una Università con una reputazione eccellente come l’Università San Raffaele debba essere votata alla ricerca e alla difesa di scienza e verità. Con rammarico a mio giudizio vi ho visto non solo mancare a questa missione, ma talvolta forse impegnarvi nella direzione opposta.
Il privilegio che ho avuto – anche grazie a quello che ho imparato molti anni fa nelle vostre aule – consistente nel potere lavorare nei migliori istituti del mondo porta con sé delle responsabilità. Questa responsabilità si traduce oggi nel mio dovermi esporre per esprimere pubblicamente il mio dispiacere davanti al degrado del modus operandi dell’ateneo, nonché nel denunciare l’erroneità di dichiarazioni che hanno, purtroppo, contribuito a portare grossissimi danni nel nostro amato Paese.
Nella fede che gli ideali che mi avete insegnato in tempi più facili saranno da voi presto difesi anche in questi momenti difficili.
Cordiali saluti. Giacomo Gorini, Oxford.

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Dall’interno dell’Ospedale (Massimo Giannini)

Massimo Giannini, direttore del “La Stampa”, ricoverato in terapia intensiva per Covid-19. Da leggere fino in fondo, soprattutto coloro che si ostinano a negare l’evidenza, a dire che “è tutta un’invenzione”, a coloro che pensano che non indossare la mascherina sia espressione di una presunta ribellione al sistema. Ma bisogna anche che tutti, nessuno escluso, riflettiamo sulla organizzazione del nostro “sistema Paese”, ove nessuno è mai responsabile e dove siamo campioni del mondo nello scarica-barile
Occorre snellire le procedure, non si può morire di burocrazia; bisogna che chi ha sbagliato paghi in prima persona; bisogna che chi si dimostra inadatto al ruolo che ricopre possa e debba essere rimosso subito. E sono sempre più dubbioso sulla opportunità di lasciare alle Regioni la gestione della sanità pubblica …
 
“Scusate se riparlo di me. Oggi ‘festeggio’ quattordici giorni consecutivi a letto, insieme all’ospite ingrato che mi abita dentro. Gli ultimi cinque giorni li ho passati in terapia intensiva, collegato ai tubicini dell’ossigeno, ai sensori dei parametri vitali, al saturimetro, con un accesso arterioso al braccio sinistro e un accesso venoso a quello destro. Il Covid è infido, è silente, ma fa il suo lavoro: non si ferma mai, si insinua negli interstizi polmonari, e ha un solo scopo, riprodursi, riprodursi, riprodursi. Meglio se in organismi giovani, freschi, dinamici. Questa premessa non suoni da bollettino medico: mi racconto solo per spiegare quelle poche cose che vedo e capisco, da questa parte del fronte, dove la guerra si combatte sul serio. Perché la guerra c’è, se ne convincano i “panciafichisti di piazza e di tastiera”, e si combatte nei letti di ospedale e non nei talk show.
Quando sono entrato in questa terapia intensiva, cinque giorni fa, eravamo 16, per lo più ultrasessantenni. Oggi siamo 54, in prevalenza 50/55enni. A parte me, e un’altra decina di più fortunati, sono tutti in condizioni assai gravi: sedati, intubati, pronati. Bisognerebbe vedere, per capire cosa significa tutto questo. Ma la gente non vuole vedere, e spesso si rifiuta di capire. Così te lo fai raccontare dai medici, dagli anestesisti, dai rianimatori, dagli infermieri, che già ricominciano a fare i doppi turni perché sono in superlavoro, bardati come sappiamo dentro tute, guanti, maschere e occhiali. Non so come fanno. Ma lo fanno, con un sorriso amaro e gli occhi: ‘A marzo ci chiamavano eroi, oggi non ci si fila più nessuno. Si sono già dimenticati tutto…’ Ecco il punto: ci siamo dimenticati tutto.
Le bare di Bergamo, i vecchi morenti e soli nelle Rsa, le foto simbolo di quei guerrieri in corsia stravolti dal sacrificio, i murales con la dottoressa che tiene in braccio l’Italia ammalata, l’inno dai balconi. Possibile? Possibile. La vita continua, persino oltre il virus. E allora rieccoci qui, nella prima come nella seconda ondata, a litigare sulle colpe, a contestarci i ritardi. Come se la tragedia già vissuta non ci fosse servita. L’ho scritto da sano e lo ripeto da malato: le cose non stanno andando come avrebbero dovuto. Ripetiamo gli errori già fatti. Domenica, dopo il mio editoriale in cui lo ribadivo, mi ha chiamato il ministro Speranza per dirmi che è vero, ‘però guarda i numeri dei contagi negli altri Paesi’. Mi ha chiamato il governatore De Luca per protestare e dire che quelle sui disastri dei pronto soccorsi in Campania sono tutte “fake news”. E poi mi hanno chiamato da altre regioni per il caos tamponi, e dai medici di famiglia per dire che loro sono vittime, e poi dai Trasporti per obiettare che sugli affollamenti loro non c’entrano. E poi, e poi, e poi.
E poi il solito scaricabarile italiano. Dove tutti ci crediamo assolti, e invece siamo tutti coinvolti. Dopo il disastro di marzo-aprile dovevamo fare 3.443 nuovi posti letto di terapia intensiva e 4.200 di sub-intensiva, ma ne abbiamo fatti solo 1.300: di chi è la colpa? Mancano all’appello 1.600 ventilatori polmonari, dice il ministro Boccia: di chi è la colpa? Dovevamo assumere 81 mila tra medici infermieri e operatori sanitari, ma al 9 ottobre ne risultano 33.857, tutti contratti a termine: di chi è la colpa? L’odissea tamponi al drive in è una vergogna nazionale, in una regione come il Lazio dura da mesi e ancora non è chiaro quali strutture private siano abilitate a fare che cosa, tra antigienici e molecolari, e mentre famiglie con bambini fanno le file di notte in automobile, un assessore che Zingaretti farebbe bene a cacciare domattina stessa vaneggia di “psicosi”: di chi è la colpa? E scusate se vi riparlo di me: ho infettato anche mia madre, novantenne, malata oncologica, vive sola, come migliaia di anziani, eppure non c’è servizio domiciliare che possa supportarla né medico di base che vada a visitarla, ‘sa com’è, non abbiamo presidi, ci danno cinque mascherine chirurgiche a settimana’: di chi è la colpa? Ne parlo con i dottori dell’ospedale. La risposta è durissima: noi siamo qui in trincea, ogni giorno, in questi mesi ci hanno dato l’una tantum Covid da 500 euro lordi e cari saluti, i nostri colleghi “sul territorio” chi li ha visti?
Non recrimino, non piango. Vorrei solo un po’ di serietà. Vorrei solo ricordare a tutti che anche la retorica del «non possiamo chiudere tutto» cozza contro il principio di realtà, se la realtà dice che i contagi esplodono. Se vogliamo contenere il virus, dobbiamo cedere quote di libertà. Non c’è altra soluzione. Chiudi i locali notturni? Fai il coprifuoco? Aumenti lo smartworking? Ci sarà un conto da pagare, è evidente. Il lockdown totale di inizio 2020 ci costò 47 miliardi al mese e un dimezzamento di fatturato, valore aggiunto e occupazione nazionale. Oggi non dobbiamo e non vogliamo arrivare fino a quel punto. Ma qualcosa in più di quanto abbiamo fatto con l’ultimo Dpcm è doveroso. Chi subisce perdite ulteriori dovrà essere risarcito. Il governo ha risorse da reperire, se solo la piantasse di tergiversare sul Mes o non Mes. Aziende e sindacati hanno interessi da condividere, se solo la finissero di inseguire un assurdo conflitto sociale a bassa intensità. La pandemia sta accorciando ancora una volta il respiro della nostra democrazia. Provare a impedirglielo tocca solo a noi. Scambiando la rinuncia di oggi con il riscatto di domani. Ma per poterci riuscire abbiamo bisogno che governo, regioni, autorità sanitarie e scientifiche si muovano come un “corpo” unico e visibile, un dispositivo coerente e credibile di atti, norme, parole. Non lo stanno facendo. Anche per questo siamo confusi e impauriti. ‘Andrà tutto bene’ non può essere solo speranza. Deve essere soprattutto volontà.”

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