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Na fiaba nira (di Teresa Zaccuri)

28 Dicembre 1908: Un terremoto, accompagnato da un maremoto altrettanto devastante, distrusse le città di Reggio C. e Messina, causando un numero di vittime stimato tra le 90mila e le 120mila. Sono passati 112 anni da quel giorno terribile. Nonna mi raccontava che la maggior parte dei morti, a Reggio, fu causata dall’onda di tsunami successiva al terremoto con il mare che arrivò fino a Piazza Castello. Senza dimenticare che davanti al Tempietto, a circa 50 metri dalla riva, ci sono le rovine dell’antico rione dei pescatori
 
 
 
 
 
 
 
Questa poesia, scritta dalla poetessa Teresa Zaccuri, è dedicata a tutti coloro che vivono ed hanno vissuto il furore della “terra che trema”
 
‘Na “fiaba”nira (28 dicembre 1908)
Curri, Teresa! Prestu, figghia! Fui…!
Gridau me’ patri ddha matina ‘i luttu!
E poi da’ testa,tutti i me’ ricordi,
pacci, fujru a pezzi, spasuliati.
Né, dopu, ‘i ritruvai…! Sicuramenti
rristaru ssutterrati ‘nte maceri
stivati assiemi a la desolazioni.
L’unicu lampu chi rristau ddhumatu,
n’to scuru ‘i ddhu vacanti disperatu,
era di mia, nucenti figghioleddha,
cugghiuta ‘nta ‘nu pizzu da’ cucina
cu ll’occhi strhitti, ‘i mani supra ‘a testa,
e c’a facci scacciata ‘nte ginocchia!
‘I bbuci ‘i ‘nu nimali nzerbaggiutu
‘nto’n Tempu senza Tempu, troppu longu!
E poi… cchiù nenti! ‘Nu silenziu ‘i schiantu.
Comu ‘nto’n cimiteru a nutti funda.
Senza sciatari, jeu, firmai ‘u rrispiru
e, chianu chianu, mi vistia ‘i curaggiu:
l’occhi jzai pi’ll’aria, e… chi ti vitti??
‘Nu cielu ‘i stiddhi supra a la me’ casa!
Stiddhi ‘nfamuni. Friddi. Di dicembri.
Cchiù ‘nfami ‘i tutti, chiddha cu la cura,
chi pochi jorna avanti ‘lluminava
canti, nuvini, preci e ciarameddhi
chi a Gloria si spandivanu ‘nta ll’aria
a onori di lu Santu Bambineddhu.
Steddhazza traditrici, nesci fora!!!Ma chi Natali ‘i focu priparasti?!?
No! Non è giustu! Già stava ‘nzunnandu‘a cena ‘i capu ‘i ll’annu
chi nuciddhi,chi fica sicchi, chi castagni o’ furnu,
coccia ‘i racina ‘mpassuluta e duci,‘
u bbroru du jaddhuzzu chi pascimmu
‘nto nostrhu jaddhinaru arretu a’ casa…!
Steddhazza bbrutta! ‘Nfaccia, s’hai curaggiu!
Nesci, bastarda! Varda chi facisti!
arda chi cumbinasti supra a Rriggiu!!!
E poi ciangia! Ciangia non sacciu quantu…
Ciangia ‘i duluri, ‘i rraggia e ‘i cuntintizza:
circai pirdunu pi’ jastimi ‘i prima
e u Bambineddhu Santu ringraziai,
chì mi sarbau cu’ tutta ‘a me’ famigghia;
sinnò a ccam’ora, niputeddha mia,
‘sta speci ‘i “fiaba” nira n’a cuntava,
né nc’eri tu, davanti a ‘stu braceri,
ssittata chi t’a senti a bucca aperta!
Quandu sì randi, cuntala ‘e to figghi,
p’amuri mi si sapi chi ‘sta Rriggiu
patìu, murìu, e surgìu com’ò Signuri!
Teresa Zaccuri
<<Corri, Teresa, presto figlia, scappa!>> / Grido’ mi padre quella mattina di lutto!>> / E poi, dalla testa, tutti i miei pensieri / pazzi, sono scappati a pezzi, dispersi. / Nè dopo li ho ritrovati!… Sicuramente / sono rimasti sepolti sotto le macerie / accumulati stretti insieme con la desolazione. / L’unico flash che rimase acceso, / nel buio di quel vuoto disperato, / era di me, innocente ragazzina, / raccolta in un angolo della cucina / con gli occhi stretti, le mani sulla testa / e col viso schiacciato tra le ginocchia!/ Le urla di un animale selvaggio / in un Tempo senza Tempo, troppo lungo! / E poi… più nulla! Un silenzio da paura, / come in un cimitero a notte fonda. / Senza dir nulla, io, fermai il respiro / e piano piano mi feci coraggio: / gli occhi alzai per aria, e… cosa vidi??? / Un cielo di stelle sopra la mia casa! / Stelle infamone. Fredde. Di dicembre./ Più infame di tutte, quella con la coda, / che pochi giorni prima illuminava / canti, novene, preghiere e zampogne / che a Gloria si spandevano nell’aria / in onore del Santo Bambinello. / << Stellaccia traditrice, esci fuori!!! / Ma che Natale di fuoco hai preparato? / No. Non è giusto! Già stavo immaginando / la cena di capodanno con le nocciole, / i fichi secchi, le castagne al forno, / chicchi di uva passa e dolci, / il brodo del galletto che pascemmo / nel nostro gallinaio, dietro casa…! / Stellaccia brutta! Affacciati, se hai coraggio! / Vieni fuori, bastarda! Guarda che hai fatto! / Guarda che hai combinato sopra Reggio!>>. / E dopo piansi! Piansi non so quanto! / Piansi di dolore, di rabbia, di contentezza: / cercai perdono per le bestemmie di prima / e il Bambinello Santo ringraziai, / che mi aveva salvato con tutta la mia famiglia; / altrimenti, a quest’ora, nipotina mia, / questa specie di fiaba nera non avrei potuto raccontare, / nè ci saresti stata tu, davanti a questo braciere, / seduta ad ascoltare a bocca aperta! / Quando sarai grande raccontala ai tuoi figli, / perchè si sappia che questa Reggio / ha sofferto, è morta ed è risorta come il Signore!

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Il cielo di Roma, stanotte (di Luca Laurenti)

IL CIELO DI ROMA, STANOTTE
Mia madre non sta bene.
Decidiamo con molta fatica e preoccupazione di portarla al pronto soccorso del S. Camillo dove è seguita da anni.
Il cuore fa le bizze, non possiano tergiversare.
È ora di cena.
Le strade sono libere.
Pochi passanti.
Viale Trastevere é incredibilmente vuoto e buio.
La luce fioca dei lampioni si riflette sull’asfalto bagnato, poche insegne luminose, qualche passante frettoloso.
Arriviamo all’ingresso del PS.
Ci misurano la febbre ed entriamo.
Pochi metri e siamo al PS.
Siamo soli in sala d’attesa.
Davanti a noi un corridoio, in fondo il triage.
Voci lontane, sanitari in visiera senza volto che si affannano intorno a letti e barelle su cui sono adagiati corpi umani senza forma.
Mani e braccia grinzose si levano verso il soffitto insinuandosi tra lenzuola bianche e teli verdi.
Sono tutti anziani, tutti, presumo, Covid.
Un’atmosfera irreale.
Aspettiamo.
Mia madre si guarda intorno con aria spaesata.
Sento il suo respiro affannato dentro la mascherina.
Le accarezzo la mano per rassicurarla.
Passano i minuti.
Nessuno.
Arriva un’ambulanza.
I suoi fari rompono il buio della notte.
Si aprono gli sportelli posteriori.
Una barella.
Una anziana signora distesa sul fianco protende una mano all’esterno e con l’altra si regge sul volto la mascherina.
I due barellieri accostano la barella al muro.
La lasciano un attimo, entrano nella sala, poi tornano.
L’anziana, signora, si toglie la mascherina e tenta di toccare il volto della giovane ausiliaria che insieme al collega l’ha accompagnata fino al PS.
“Voglio farvi pubblicità”, dice con un filo di voce.
“Siete stati due angeli, lo dico a tutti”.
La giovane donna sorride.
Le accarezza I capelli.
Ha uno sguardo dolcissimo.
Si capisce che è emozionata e commossa.
“Adesso le facciamo il tampone. Non deve avere paura. Le tengo la mano mentre lo fa. Va bene?”
L’anziana annuisce e vedo le sue dita scarne che si avvinghiano al polso del suo angelo in tuta gialla.
Un lungo cotton fioc le penetra nel naso.
Pochi secondi e tutto finisce.
L’infermiera in uniforme stile robocop si avvicina a mia madre.
” Tocca a lei, signora”.
Abbasso la mascherina di mamma.
Anche lei artiglia il mio polso.
Gli occhi le si riempiono di lacrime mentre il cotton fioc le rivista nella narice.
Anche per lei dura pochi secondi.
Poi tutti si allontanano mentre altri due infermieri portano via la barella con l’anziana signora.
Di nuovo silenzio.
Arrivano altre ambulanze, una dopo l’altra.
Stavolta i pazienti entrano dall’ingresso covid.
Una donna in tuta su una barella in mezzo alla stanza triage grida aiuto.
Vuole sapere che ne sarà di lei, ma nessuno le dà retta.
Qualcuno finalmente si avvicina per spiegarle che non le faranno nulla prima del risultato del test covid.
Lei si placa, ma si guarda intorno spaesata.
La sua barella ingombra, ma non si sa dove metterla.
Non c’è posto.
Alla fine riescono a spostare due lettini dove due corpi raggrinziti giacciono inerti e lei viene spinta contro un muro tra i due.
Scompare alla mia vista e le sue grida si affievoliscono.
Mamma continua a guardarsi intorno sempre più attonita.
Arrivano altre ambulanze.
Anziani, sempre anziani.
Guardo l’orologio.
È passata un’ora.
Arriva un’infermiera.
Ha un blocco in mano.
Attraverso la visiera riesco a vedere i suoi occhi stanchi incastonati da occhiaie scure.
Infila l’indice di mamma nel saturimetro e intanto mi chiede i dati anagrafici.
Qualcuno la chiama.
Scappa via.
Poi torna e registra i valori.
Mi avverte che mamma dovrà stare da sola.
Ci contatteranno sul cellulare per darci notizie.
Le spiego che mia madre non può stare da sola, lei alza le braccia e mi indica la sala.
“Nessuno di loro può stare da solo. Ma non c’è scelta”.
Mi viene un crampo allo stomaco.
Mamma mi guarda e nei suoi occhi leggo angoscia e terrore.
Non so come spiegarglielo.
L’infermiera scappa di nuovo.
Io comincio a sfilare l’orologio dal polso ossuto di mamma, poi prendo il portafoglio e il cellulare mentre il cuore mi scoppia.
L’infermiera torna, sembra voglia parlarmi.
“Le posso dare un consiglio? La porti via. Glielo dico come fosse mia nonna. I valori sono sotto controllo. La porti via di qua. Guardi come stiamo messi. Sono tutti malati covid. La porti a casa sua. Domani la fate vedere da un cardiologo. Non la lasci soffrire qui da sola”.
Quasi la bacerei, mentre pronuncia le parole che mi liberano da un’angoscia che non riesco più a contenere.
Mamma mi guarda.
La sua muta supplica si unisce a quella di tutti gli altri corpi, alle grida disperate, alle mani levate al cielo, agli sguardi dove puoi scorgere la profondità di abissi senza fondo.
È un attimo.
Siamo già fuori.
Passiamo con la macchina davanti a una fila di auto parcheggiate ordinatamente una vicino all’altra.
Nel buio degli abitacoli scorgo figure silenziose, immobili, volti scuri rivolti verso l’ingresso del PS.
Sono i parenti di quei corpi soli strappati da un subdolo virus all’affetto dei propri cari.
Immagino la loro disperazione, il senso di colpa, la paura, l’angoscia di non poter fare nulla, di non sapere cosa stia succedendo là dove non possono vedere quelle dita che cercano qualcosa in alto, verso il soffitto, verso il cielo.
Lo strazio che provo mentre li guardo ormai dallo specchietto retrovisore è terribile.
Ma già sento mia mamma che grida felice “che meraviglia” mentre le luci delll’isola Tiberina ci accolgono rassicuranti e poi piazza Argentina, il Campidoglio, piazza Venezia con l’albero di Natale quasi completato.
Il suo respiro è più regolare, ora.
“Che meraviglia”, esclama rapita ogni pochi metri e i suoi occhi brillano in una notte di coprifuoco così diversa dalle altre, così buia e silenziosa.
Le strade sono vuote, potrei aumentare la velocità, ma non lo faccio.
Voglio ascoltare il suo continuo “che meraviglia”, voglio prolungare la sua felicità.
Voglio che non si senta sola.
Voglio vedere le sue dita che indicano ora qua, ora là.
Voglio vederla sorridere.
Perché il suo sorriso possa arrivare fin laggiù, fino ad accarezzare quei volti negli abitacoli delle auto e ancora più oltre, fino a stringere quelle mani grinzose protese verso un cielo senza stelle e senza amore.
Il cielo di Roma, stanotte.
Luca Laurenti

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Un ex studente del San Raffaele

Carissima Università “Vita-Salute” San Raffaele,

mi presento: sono Giacomo Gorini, un vostro ex studente, avendo conseguito la Laurea Magistrale in Biotecnologie Mediche Molecolari e Cellulari nel Settembre 2013 presso il vostro ateneo con il massimo dei voti.
Dopo gli studi, mi sono trasferito prima in USA alle porte di Washington DC, dove ho lavorato presso i National Institutes of Health (collaborando tra gli altri con il laboratorio del Dott. Fauci), poi ho conseguito un dottorato di ricerca presso l’Università di Cambridge 2019, e da allora fino a oggi lavoro presso il Jenner Institute dell’Università di Oxford. Del Jenner Institute in cui lavoro si parla molto perché stiamo mettendo a punto un nuovo vaccino contro COVID-19. 
Comunque, in questa sede, non è del vaccino che voglio parlare: durante i mesi estivi ho assistito – come tutti – a un susseguirsi di dichiarazioni errate o volontariamente fraintendibili sull’emergenza in corso da parte di vostri docenti. L’Università San Raffaele non interveniva quando suoi professori parlavano in TV di “virus clinicamente morto”, di “mutazioni delle proteine, ma non del genoma”, di irrealistiche “cariche virali” o di una mai verificata attenuazione del virus. Talvolta, i docenti richiedevano cieca fiducia della comunità scientifica italiana in onore di dati in preparazione che non sono, purtroppo, stati mai più presentati. Smentiti poi dalla realtà, ho visto gli stessi docenti ritrattare appellandosi a fraintendimenti da parte del pubblico sul messaggio originale, scaricando così la responsabilità dell’errore sulla limitata comprensione dell’ascoltatore. Sbigottito ho visto fare paragoni diretti tra decessi causati da malattie come l’infarto o il cancro e quelli causati da una malattia virale in fase pandemica. Durante tutto questo, l’Università assisteva impassibile. 
A queste affermazioni errate, pericolose e mai corrette, si è poi aggiunta la narrazione che ha definito gli scienziati “topi di laboratorio”, anche se è proprio lo sforzo unificato degli scienziati di tutto il mondo che ci sta tirando fuori da questa brutta situazione. Gli stessi scienziati che voi stessi formate nelle vostre aule. Gli stessi scienziati che hanno scelto il vostro ateneo in cerca di una professione nobile che può dare tante soddisfazioni. Gli stessi scienziati che ispirano i bravi studenti che vogliono fare ricerca senza essere additati dai loro stessi docenti come “topi di laboratorio”.
Ho sempre pensato che una università, e in particolare una Università con una reputazione eccellente come l’Università San Raffaele debba essere votata alla ricerca e alla difesa di scienza e verità. Con rammarico a mio giudizio vi ho visto non solo mancare a questa missione, ma talvolta forse impegnarvi nella direzione opposta.
Il privilegio che ho avuto – anche grazie a quello che ho imparato molti anni fa nelle vostre aule – consistente nel potere lavorare nei migliori istituti del mondo porta con sé delle responsabilità. Questa responsabilità si traduce oggi nel mio dovermi esporre per esprimere pubblicamente il mio dispiacere davanti al degrado del modus operandi dell’ateneo, nonché nel denunciare l’erroneità di dichiarazioni che hanno, purtroppo, contribuito a portare grossissimi danni nel nostro amato Paese.
Nella fede che gli ideali che mi avete insegnato in tempi più facili saranno da voi presto difesi anche in questi momenti difficili.
Cordiali saluti. Giacomo Gorini, Oxford.

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