Costardelle (di Antonio Calabrò)

Mi sono appena svegliato e ho fatto un sogno bellissimo. Ve lo racconto, ma forse è stato un ricordo, emerso chissà perché. Ero bambino ed era l’inizio dell’Estate nel rione Ferrovieri, al crepuscolo, quando il profumo del mare si riversava per le vie, e c’erano tutti, ma quanti ne ho visti in sogno, e molti non ci sono più, i nonni i parenti gli amici su questo balcone lunghissimo della casa dove sono nato, e allora sotto passava uno con la “Lapa” che “bandiava”: “Custardelli, vivi, vivi. Su’ vivi nisciru ora ru mari!” E mia nonna: “Firmativi, a quantu i faciti? “Milli liri a cascitta” e ne prendevano una cassetta così via una frittura gigantesca e una tavolata con tutti che ridevano e scherzavano e io divoravo a macchinetta mi piaceva lasciare le lische pulite nel piatto, e la sera diventava notte profumata e poi sbucava fuori una di quelle torte gelato che si conservavano nel polistirolo e la panna era una specie di meringa e poi il caffè, un cucchiaino u figghiolu su poti mbiviri e i grandi parlavano e raccontavano storie fino a tardi tardi tardi e io li ascoltavo incantato, ed ero felice, si che ero felice, di quei sapori di costardelle e torta gelato e caffè e quel sapore che ha quella speranza che sentivo nascere in me, e quel profumo quel profumo quel profumo, e quell’odore di mare di questa mia città stramazzata di bellezza, di estati, di notti con le stelle, e il mondo piccolo ma nostro, nostro, nostro, come un sogno, proprio come un sogno. Il nostro mondo antico, e peccato per chi non lo sa.

 

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