IL CIELO DI ROMA, STANOTTE
Mia madre non sta bene.
Decidiamo con molta fatica e preoccupazione di portarla al pronto soccorso del S. Camillo dove è seguita da anni.
Il cuore fa le bizze, non possiano tergiversare.
È ora di cena.
Le strade sono libere.
Pochi passanti.
Viale Trastevere é incredibilmente vuoto e buio.
La luce fioca dei lampioni si riflette sull’asfalto bagnato, poche insegne luminose, qualche passante frettoloso.
Arriviamo all’ingresso del PS.
Ci misurano la febbre ed entriamo.
Pochi metri e siamo al PS.
Siamo soli in sala d’attesa.
Davanti a noi un corridoio, in fondo il triage.
Voci lontane, sanitari in visiera senza volto che si affannano intorno a letti e barelle su cui sono adagiati corpi umani senza forma.
Mani e braccia grinzose si levano verso il soffitto insinuandosi tra lenzuola bianche e teli verdi.
Sono tutti anziani, tutti, presumo, Covid.
Un’atmosfera irreale.
Aspettiamo.
Mia madre si guarda intorno con aria spaesata.
Sento il suo respiro affannato dentro la mascherina.
Le accarezzo la mano per rassicurarla.
Passano i minuti.
Nessuno.
Arriva un’ambulanza.
I suoi fari rompono il buio della notte.
Si aprono gli sportelli posteriori.
Una barella.
Una anziana signora distesa sul fianco protende una mano all’esterno e con l’altra si regge sul volto la mascherina.
I due barellieri accostano la barella al muro.
La lasciano un attimo, entrano nella sala, poi tornano.
L’anziana, signora, si toglie la mascherina e tenta di toccare il volto della giovane ausiliaria che insieme al collega l’ha accompagnata fino al PS.
“Voglio farvi pubblicità”, dice con un filo di voce.
“Siete stati due angeli, lo dico a tutti”.
La giovane donna sorride.
Le accarezza I capelli.
Ha uno sguardo dolcissimo.
Si capisce che è emozionata e commossa.
“Adesso le facciamo il tampone. Non deve avere paura. Le tengo la mano mentre lo fa. Va bene?”
L’anziana annuisce e vedo le sue dita scarne che si avvinghiano al polso del suo angelo in tuta gialla.
Un lungo cotton fioc le penetra nel naso.
Pochi secondi e tutto finisce.
L’infermiera in uniforme stile robocop si avvicina a mia madre.
” Tocca a lei, signora”.
Abbasso la mascherina di mamma.
Anche lei artiglia il mio polso.
Gli occhi le si riempiono di lacrime mentre il cotton fioc le rivista nella narice.
Anche per lei dura pochi secondi.
Poi tutti si allontanano mentre altri due infermieri portano via la barella con l’anziana signora.
Di nuovo silenzio.
Arrivano altre ambulanze, una dopo l’altra.
Stavolta i pazienti entrano dall’ingresso covid.
Una donna in tuta su una barella in mezzo alla stanza triage grida aiuto.
Vuole sapere che ne sarà di lei, ma nessuno le dà retta.
Qualcuno finalmente si avvicina per spiegarle che non le faranno nulla prima del risultato del test covid.
Lei si placa, ma si guarda intorno spaesata.
La sua barella ingombra, ma non si sa dove metterla.
Non c’è posto.
Alla fine riescono a spostare due lettini dove due corpi raggrinziti giacciono inerti e lei viene spinta contro un muro tra i due.
Scompare alla mia vista e le sue grida si affievoliscono.
Mamma continua a guardarsi intorno sempre più attonita.
Arrivano altre ambulanze.
Anziani, sempre anziani.
Guardo l’orologio.
È passata un’ora.
Arriva un’infermiera.
Ha un blocco in mano.
Attraverso la visiera riesco a vedere i suoi occhi stanchi incastonati da occhiaie scure.
Infila l’indice di mamma nel saturimetro e intanto mi chiede i dati anagrafici.
Qualcuno la chiama.
Scappa via.
Poi torna e registra i valori.
Mi avverte che mamma dovrà stare da sola.
Ci contatteranno sul cellulare per darci notizie.
Le spiego che mia madre non può stare da sola, lei alza le braccia e mi indica la sala.
“Nessuno di loro può stare da solo. Ma non c’è scelta”.
Mi viene un crampo allo stomaco.
Mamma mi guarda e nei suoi occhi leggo angoscia e terrore.
Non so come spiegarglielo.
L’infermiera scappa di nuovo.
Io comincio a sfilare l’orologio dal polso ossuto di mamma, poi prendo il portafoglio e il cellulare mentre il cuore mi scoppia.
L’infermiera torna, sembra voglia parlarmi.
“Le posso dare un consiglio? La porti via. Glielo dico come fosse mia nonna. I valori sono sotto controllo. La porti via di qua. Guardi come stiamo messi. Sono tutti malati covid. La porti a casa sua. Domani la fate vedere da un cardiologo. Non la lasci soffrire qui da sola”.
Quasi la bacerei, mentre pronuncia le parole che mi liberano da un’angoscia che non riesco più a contenere.
Mamma mi guarda.
La sua muta supplica si unisce a quella di tutti gli altri corpi, alle grida disperate, alle mani levate al cielo, agli sguardi dove puoi scorgere la profondità di abissi senza fondo.
È un attimo.
Siamo già fuori.
Passiamo con la macchina davanti a una fila di auto parcheggiate ordinatamente una vicino all’altra.
Nel buio degli abitacoli scorgo figure silenziose, immobili, volti scuri rivolti verso l’ingresso del PS.
Sono i parenti di quei corpi soli strappati da un subdolo virus all’affetto dei propri cari.
Immagino la loro disperazione, il senso di colpa, la paura, l’angoscia di non poter fare nulla, di non sapere cosa stia succedendo là dove non possono vedere quelle dita che cercano qualcosa in alto, verso il soffitto, verso il cielo.
Lo strazio che provo mentre li guardo ormai dallo specchietto retrovisore è terribile.
Ma già sento mia mamma che grida felice “che meraviglia” mentre le luci delll’isola Tiberina ci accolgono rassicuranti e poi piazza Argentina, il Campidoglio, piazza Venezia con l’albero di Natale quasi completato.
Il suo respiro è più regolare, ora.
“Che meraviglia”, esclama rapita ogni pochi metri e i suoi occhi brillano in una notte di coprifuoco così diversa dalle altre, così buia e silenziosa.
Le strade sono vuote, potrei aumentare la velocità, ma non lo faccio.
Voglio ascoltare il suo continuo “che meraviglia”, voglio prolungare la sua felicità.
Voglio che non si senta sola.
Voglio vedere le sue dita che indicano ora qua, ora là.
Voglio vederla sorridere.
Perché il suo sorriso possa arrivare fin laggiù, fino ad accarezzare quei volti negli abitacoli delle auto e ancora più oltre, fino a stringere quelle mani grinzose protese verso un cielo senza stelle e senza amore.
Il cielo di Roma, stanotte.
Luca Laurenti
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