“No, l’Italia non è razzista!”.
“No, in Italia non c’è bisogno di alcuna legge contro l’omofobia!”
Quante volte abbiamo sentito ripetere queste frasi, quante volte abbiamo sentito dire che è tutta una strumentalizzazione politica, che noi siamo buoni, bravi, pronti ad accogliere tutti
Poi però accadono in due giorni una serie di episodi che fanno crollare il castello di carta o le fragili coperture dietro cui ci si nasconde
Succede che su un tram romano un essere a due gambe (mi rifiuto di definirlo essere umano) si senta in dovere di aggredire verbalmente un ragazzo, colpevole di essere omosessuale: “frocio di merda, finocchio, puttanella, ti piace fare pompini” sono alcune delle graziose affermazioni pronunciate dal suddetto (mi scuso per la rozzezza del linguaggio, ma credo che così si comprenda meglio di cosa si sta parlando: a volte gli asterischi, i puntini sospensivi o i “beep” a coprire il sonoro addolciscono la realtà, non servono per coprire la volgarità). Mi si dirà che è stato il gesto di una sola persona. Non è così. Nessuno, ripeto nessuno dei presenti sul tram si è esposto a favore del ragazzo, bersaglio di questi insulti vergognosi. Tutti pavidi e spaventati? O forse tutti complici morali? Forse un po’ per un aspetto e tanto per l’altro ma tutti in silenzio. E siccome i detti popolari hanno sempre un grosso fondamento, mi viene in mente che “chi tace acconsente”
Succede poi che un giovane medico, con mansioni di medico fiscale, nel civilissimo Veneto, si rechi per un controllo a casa di un soggetto “in malattia”. Succede che il malato non sia in casa e che, probabilmente avvertito dai familiari, si presenti in ciabatte e costume da mare, divisa tipica che indossa chi sta male in periodo estivo. Il tizio in questione, anziché nascondersi sotto il letto e sparire dalla vista per la vergogna, aggredisce il medico, lo blocca chiudendo il portone, minaccia di “tagliargli la testa” di “non farlo uscire vivo”, gli strappa di mano il tablet che il collega usava per lavorare e lo scaglia a terra, frantumandolo, insegue il medico, che nel frattempo è riuscito a raggiungere la sua auto, rompendo la maniglia della sportello, il tutto sotto gli occhi degli altri condomini, affacciati alle finestre o ai balconi, tutti silenti, tutti complici. La colpa del collega? Quella di voler fare rispettare le regole (“ora devi scrivere che mi hai trovato in casa, negro di merda”). Sì, perché ho omesso un particolare trascurabile: il medico in questione è camerunense, e “non può venire in Italia a fare quel che cazzo gli pare” (espressione testuale riportata nei vari siti e negli articoli di giornale che riferiscono la notizia, profferita da un essere spregevole che sta truffando lo Stato Italiano dichiarandosi in malattia mentre sta bellamente a prendere il sole a mare)
Succede ancora che un ragazzo di 20 anni, etiope, adottato da una famiglia italiana, si tolga la vita. Succede che il padre, senza dare spiegazioni ulteriori, dica che non è certamente per motivi legati al razzismo che il figlio si è suicidato. Però è stata resa pubblica una lettera di Seid, il nome di questo povero ragazzo, che sembra dire proprio il contrario. Cosa significa altrimenti “ovunque io vada, ovunque io sia, ovunque mi trovi sento sulle mie spalle, come un macigno, il peso degli sguardi scettici, prevenuti, schifati e impauriti delle persone”? Come interpretare una frase che racconta la quotidianità di Seid “qualche mese fa ero riuscito a trovare un lavoro che ho dovuto lasciare perché troppe persone, prevalentemente anziane, si rifiutavano di farsi servire da me e, come se non bastasse, come se non mi sentissi già a disagio, mi additavano anche la responsabilità del fatto che molti giovani italiani (bianchi) non trovassero lavoro”? Oppure, ancora, “”dentro di me è cambiato qualcosa: come se nella mia testa si fossero creati degli automatismi inconsci; come se mi vergognassi di essere nero, come se avessi paura di essere scambiato per un immigrato, come se dovessi dimostrare alle persone che non mi conoscevano che ero come loro, che ero italiano, che ero bianco. E questo, quando stavo con i miei amici, mi portava a fare battute di pessimo gusto sui neri e sugli immigrati. Addirittura con un’aria troneggiante affermavo che ero razzista verso i neri, come a voler sottolineare che io non ero uno di quelli, che io non ero un immigrato. L’unica cosa di troneggiante però, l’unica cosa comprensibile nel mio modo di fare era la paura.
La paura per l’odio che vedevo negli occhi della gente verso gli immigrati, la paura per il disprezzo che sentivo nella bocca della gente, persino dai miei parenti che invocavano costantemente con malinconia Mussolini e chiamavano ‘Capitano Salvini’. La delusione nel vedere alcuni amici (non so se posso più definirli tali) che quando mi vedono intonano all’unisono il coro ‘Casa Pound”
Certo, il politico citato nella lettera si è affrettato a postare che Seid non si è suicidato per motivi legati al razzismo, riprendendo quanto affermato dai familiari, ma dalla lettera, purtroppo per tutti noi, emerge chiaramente, a mio avviso, la motivazione del gesto estremo
Non ci si può consolare affermando che questi sono “cretini”, come qualche politico ha detto. Bisogna avere il coraggio di definire le persone per quello che sono: razzisti. Bisogna avere il coraggio di pretendere pene severe per gli autori delle aggressioni, per i mandanti morali di questi atteggiamenti, purtroppo ormai assolutamente quotidiani, come ci insegna la cronaca.
Ma no, l’Italia non è razzista!
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