Riporto in toto un articolo letto sull’edizione odierna di Repubblica
E’ un articolo la cui lettura genera dolore, fa male, male fisico a chi ama Reggio Calabria. E, nonostante la lontananza, Reggio è la mia città, la mia casa, la mia terra. Fa male leggere dell’intreccio ormai inestricabile fra politica, massoneria e ‘ndrangheta, anche se sono notizie note da tempo. Fa male leggere che la malapianta ha radicato ovunque, a destra soprattutto, ma il centro e la sinistra non ne sono immuni, anzi. E per me, elettore di sinistra, sapere che fra i politici che stanno dalla mia parte, che a parole combattono la delinquenza organizzata ce n’è anche uno solo che fa il doppio gioco è un dolore ancora più grande. Fa male leggere che il 90% degli imprenditori è dentro il sistema, e non vale la scusa del “o così o non lavori”, perchè, se si continua così, non si vive più (a che serve lavorare sapendo che i tuoi sudati guadagni finiscono nelle tasche del tuo socio non tanto occulto?). Fa male leggere questo articolo che altro non fa che mettere in fila notizie già lette e rilette su processi, fatti, chiacchiere e spifferi che coinvolgono questo o quel politico, che poi, guarda caso, fa parte della cerchia di quelli di cui tutti parlano, ma sussurrando perchè non si sa mai. E magari non sai se la persona che ti sta di fronte, l’amico con cui ti confidi, è un massone e sta nella stessa loggia coperta di colui che è il bersaglio delle tue attenzioni (e rischi di diventare tu il bersaglio)
Ma in assoluto quel che fa più male è il silenzio dei cittadini. Pensare che alle ultime elezioni autunnali, di cui, a giudicare da quel che si legge, ancora sentiremo parlare per un po’, le liste civiche che hanno cercato di portare aria nuova in Comune fuori dalle logiche partitiche (Davì, Pazzano, Tortorella, rigorosamente in ordine alfabetico) hanno avuto meno del 12% totale dei voti mi fa dire una cosa che non avrei mai pensato di dire: ai reggini va bene così e se va bene così vuol dire che i reggini sono complici. Chiedo scusa all’autrice se ho inserito prima le mie riflessioni di getto, ma, proprio perchè di getto, non sono stato in grado di controllarle. Adesso mi taccio
“La slavina è iniziata a Reggio Calabria, ma potrebbe travolgere l’intera regione. In poco più di un anno e mezzo, dieci nuovi pentiti si sono presentati di fronte ai pm della procura guidata da Giovanni Bombardieri, disposti a parlare del “sistema” che ha azzerato la democrazia, reso una farsa le elezioni, addomesticato i governi. Uomini delle istituzioni, politici, piccoli e grandi imprenditori, giovani e feroci capoclan, nuove leve. I nuovi collaboratori hanno storie diverse e vengono da mondi diversi, ma tutti stanno facendo tremare la classe politica calabrese in generale e la destra in particolare, che oggi conta su un esercito di più o meno storici campioni di preferenze indagati, arrestati o sotto processo per rapporti con i clan.
I politici sotto inchiesta per i rapporti con i clan
Imputati in diversi processi di mafia sono l’ex senatore Antonio Caridi di Forza Italia, l’ex sottosegretario regionale di An Alberto Sarra, l’ex consigliere regionale Sandro Nicolò di Fdi. Stesso partito dell’ex consigliere regionale Domenico Creazzo, a processo per scambio elettorale politico mafioso, mentre – Giunta per le autorizzazioni permettendo – ha scelto l’abbreviato il senatore di Fi, Marco Siclari. Sotto inchiesta ci sono poi l’assessore regionale Franco Talarico (Udc) finito ai domiciliari per gli accordi pericolosi fatti per ottenere voti a Reggio Calabria, Domenico Tallini, liberato dal Riesame dopo essersi dimesso da presidente del Consiglio regionale, l’ex sindaco di Rosarno, Giuseppe Idà, l’ex candidato della Lega, Antonio Coco. Indagato in un’inchiesta antimafia ma “solo” per aver fatto parte di un cartello di imprese costruito per truccare le gare c’è anche l’unico deputato leghista, Domenico Furgiuele. Ma soprattutto, nuovamente sotto indagine dopo aver quasi finito di scontare una condanna a 4 anni e mezzo per avere truccato i bilanci per coprire un buco da centinaia di milioni nei conti del Comune di Reggio Calabria, c’è l’ex governatore Giuseppe Scopelliti.
Una carriera tutta a destra – dal Fronte della Gioventù al Pdl, fra i registi dello sbarco della Lega in Calabria – l’ex governatore e sindaco di Reggio per gli inquirenti è il simbolo di un sistema che si ripete, uguale a se stesso o quasi, dal 1970. E non si limita certo ai pacchetti di voti dirottati dalla ‘Ndrangheta su questo o quel candidato, ma ha a che fare con il reclutamento – se non la costruzione – del politico deputato ad intercettarli. Gente come Scopelliti, che per il pentito Consolato Villani “tutta l’Archi – quartiere feudo dei più potenti clan – l’ha preso, l’ha portato al Comune e gli ha detto ‘fai il sindaco’” perché come tale è stato scelto da un’élite che decide le strategie di tutti i clan. E da mezzo secolo detta l’agenda economica, politica e sociale in Calabria e non solo.
Laboratorio Reggio Calabria
Ecco perché conferma oggi il pentito Vecchio – ex assessore comunale, ex pentito, uomo del clan Serraino e massone – “fare Giunta con Scopelliti era una gran presa per il culo. Ci sedevamo, qualcuno ogni tanto dei suoi, del cerchio magico faceva qualche parte, ma era già tutto fatto, preconfezionato”. Dai clan. Con il numero due di quella stagione politica, Alberto Sarra, a fare da garante e paciere quando alcune famiglie storiche si sentivano trascurate dal sindaco che “dava troppo verso i De Stefano”, storico casato mafioso di Reggio Calabria. Risultato, spiega il pentito, “gli hanno tirato le orecchie anche l’altro schieramento, cioè i Condello”. Danneggiamenti ai mezzi delle partecipate del Comune, fischi in piazza. Poi c’è stato un incontro chiarificatore a Roma, dove il clan Alvaro controllava il lussuoso Cafè de Paris, ed è tornata la pace. Quando nel 2007 si è presentato per un secondo mandato, per Scopelliti è stato un plebiscito.
La politica serve. Per distribuire lavoro e ramazzare lavori, dirottare finanziamenti, gestire consensi, garantire pace o caos sociale. Ma è solo un ingranaggio di un sistema in cui tutto – l’imprenditoria, le istituzioni, la società – si tiene e tutto ruota attorno alla ‘Ndrangheta. Appalti, finanziamenti, posti di lavoro, persino eventi culturali. “Se tu è vent’anni che mangi con loro (i clan ndr) ora perché devi dire che sei che sei estorto?” si arrabbia il boss Pino Liuzzo, pentito dopo oltre trent’anni da capo di una vera e propria “holding criminale” al servizio dei clan, capace di infiltrare il settore dell’edilizia privata reggina grazie alla sua società “Euroedil Sas”. E degli imprenditori della città, afferma, “Il 90% è così”. Maurizio De Carlo, cognato del boss Gino Molinetti “La belva”, ufficialmente era uno di loro, persino in prima fila nelle manifestazioni delle associazioni di categoria. Ma da sempre è stato un “burattino” del clan De Stefano e da collaboratore oggi conferma che a Reggio Calabria lavorare con la ‘Ndrangheta è regola, non eccezione.
Il mercato dei voti
Non si tratta di singoli episodi. O di singoli clan, in grado di arruolare il titolare di piccole e grandi società, pubblici funzionari o un aspirante amministratore. Quello c’è e gli esempi si sprecano. “Così come io avevo dialogato con i Serraino per ottenere voti – spiega il pentito Vecchio – Sandro Nicolò (ex consigliere regionale di Fdi ndr) dialogava con i Libri”. Lo stesso clan – ci si stupiva anche in ambienti di ‘Ndrangheta – che gli ha ammazzato il padre. In fondo è normale, fa capire Vecchio, “chi come me partecipa alla competizione sa bene quali sono gli schieramenti”.
Succede a Reggio Calabria, come a Sant’Eufemia dove l’ex consigliere regionale Domenico Creazzo (Fdi) è riuscito a farsi arrestare ancor prima di essere proclamato per aver venduto il proprio futuro politico agli Alvaro. O poco distante, a Rosarno, dove l’ex sindaco Giuseppe Idà (ex vicesegretario regionale dell’Udc), finito ai domiciliari e poi scarcerato dal Riesame, era tanto legato al clan Pisano da affidare a loro persino il “marketing” elettorale. “Mi ha scritto l’intervento a me Cicciu U Diavulu – lo sentono dire i carabinieri – ce l’ho qua poi ce lo vediamo”. Tutto questo però è solo l’epidermide di un sistema che a monte si regge su decisioni di ‘Ndrangheta. Quella che non si vede, ma governa.
La tirannia della direzione strategica
A dettare non solo le regole ma anche il perimetro di gioco – dimostrano le più recenti inchieste – è la “direzione strategica” che dei clan calabresi decide linee guida, margini e obiettivi di intervento ed attualmente dell’organizzazione è il massimo livello conosciuto. La cupola. È “il livello supremo delle consorterie di ‘Ndrangheta” dice il pentito Giuseppe Di Giacomo e a farne parte – ha svelato l’inchiesta Mammasantissima del procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo e hanno confermato le sentenze- sono sette persone, sette esponenti dei clan più importanti.
Due sono anche stati individuati. Il primo è Giorgio De Stefano, per decenni espressione ripulita dell’omonimo casato mafioso, penalista, ex consigliere comunale DC, già condannato con rito abbreviato in primo e in secondo grado come elemento di vertice della direzione strategica nel maxiprocesso “Gotha”.
L’altro, legale anche lui, è Paolo Romeo, una storia nella destra eversiva ma finito a fare il deputato per il Psdi, uomo di Gladio dicono alcuni, affronta la medesima accusa nel processo con rito ordinario. “Era il dio della ‘ndrangheta e della politica” dice di lui Seby Vecchio, mentre Romeo da imputato si difende raccontandosi vittima di giustizialismo, pregiudizio e mistificazioni.
Già condannati definitivamente per concorso esterno, numi tutelari della latitanza del terrorista nero Franco Freda, i nomi degli avvocati De Stefano e Romeo sono saltati fuori nelle inchieste sulle stragi di mafia degli anni Novanta, sulla banda della Magliana, su tentativi di golpe, sul boom delle leghe regionali. Forgiati negli anni dei Moti di Reggio che hanno preceduto il tentativo di colpo di Stato del principe nero Valerio Junio Borghese del dicembre ‘70, da allora – dicono le inchieste – sono i grandi tessitori dei destini politici ed economici della città, anche grazie ai rapporti massonici con cui hanno legato a sé grande borghesia, professionisti, politici. È pescando lì in mezzo che hanno costruito e disfatto carriere.
Politici fabbricati in serie
La carriera “di Scopelliti senza Paolo Romeo non ci sarebbe stata. Come non ci sarebbero state quelle di Umberto Pirilli, Pietro Fuda, Gianni Bilardi (che si sappia non indagati ndr) e Antonio Caridi” dice ai magistrati l’ex sottosegretario regionale Sarra, che non è un pentito ma dopo l’arresto ha iniziato ad accennare qualcosa del sistema in cui si è mosso. Di tutti “era il più spregiudicato” racconta di lui Vecchio, che proprio da Sarra è stato portato “a rapporto” da Paolo Romeo “come una presentazione, tipo ‘togliere il cappello a qualcuno’”. Nello stesso periodo, inizia a muoversi sulla scena Antonio Caridi, la “creatura” su cui la direzione strategica più ha puntato, spostandolo come una pedina fra il Comune di Reggio Calabria e il Senato. Con tanto di strategie ascoltate “in streaming” dagli investigatori che lo vedono uscire dalla casa del boss Peppe Pelle, lo scoprono a cene elettorali con i boss, da altri apprendono di incontri persino con latitanti.
È così che Caridi diventa un crocevia di potere, con agganci nelle pubbliche amministrazioni, nello Stato e nelle grandi imprese. Lo spiega intercettato Antonio Gallo, l’imprenditore di recente arrestato come referente dei clan del crotonese, che ha messo nei guai persino l’ormai ex segretario nazionale dell’Udc Lorenzo Cesa e il suo assessore regionale Franco Talarico.
Da loro, Gallo è andato a bussare quando nel 2016 Caridi finisce in carcere e lui necessita di nuovi referenti istituzionali per ramazzare commesse e affari in tutta Italia. Li adesca garantendo a Talarico un sicuro risultato elettorale alle politiche del 2018 nel collegio di Reggio, grazie all’apporto di uomini del clan De Stefano come Natale Errigo, che si presenta come uno “del gruppo che seguiva Caridi ovunque, anche al compleanno di Berlusconi”. E nel rimpiangere intercettato il tempo che fu, Gallo spiega tutto il sistema.
Non diverso è lo schema che sta dietro al successo politico dell’ex parlamentare Amedeo Matacena jr, che da anni sverna da latitante a Dubai e con la sua fuga ha messo nei guai anche l’ex ministro dell’Interno, oggi sindaco di Imperia, Claudio Scajola, condannato per averlo aiutato.
Prima di litigare con la famiglia, l’ex parlamentare era anche l’erede della holding del traghettamento Caronte, da qualche mese in amministrazione giudiziaria perché fin dalla nascita legata a quell’élite dei clan che negli anni Settanta già si mischiava con politica e professioni all’ombra delle logge. I Matacena erano in una delle più potenti– sostiene il pentito Cosimo Virgiglio – frequentata anche da “tale avvocato Romeo” come da politici, professionisti, boss. Rapporti che il padre dell’attuale latitante – dice Liuzzo – ha fatto valere quando nel 1994 ha deciso che il figlio doveva diventare deputato. “Essendo massone, il vecchio aveva promesso, in poche parole, sia di mettere a disposizione gli avvocati pagava lui, e sia che, in poche parole, aveva delle amicizie a Roma e che il processo lo faceva tornare indietro”. Risultato, spiega Liuzzo, per Amedeo, afferma, “è stata fatta una crociata. Quando è entrato in Forza Italia, lui ha avuto un boom da fare paura”. Lo hanno garantito i clan. E negli anni lo schema non è cambiato.