Se Dio vorrà, per sempre

SE DIO VORRÀ, PER SEMPRE
Alziamo il dito per chiedere il silenzio.
Montare la tenda è la cosa più naturale del mondo.
Parliamo con sigle incomprensibili come sq, ba, coca, cda.
Per deformazione personale quando ci incontriamo parliamo in cerchio.
Il vero modo di essere felici è quello di procurare la felicità agli altri.
Ci laviamo con l’acqua ghiacciata… Cantando o urlando.
Alle prove dei canti dopo due ore ne abbiamo provato uno solo.
D’estate ci abbronziamo con il segno dei calzettoni.
Arrivare significa partire per una nuova avventura.
Attendiamo con ansia il quinto anno di reparto.
Al ritorno dal campo dormiamo 18-24 ore.
Chi non l’ha fatto non può capire.
Non importa se non si capisce cosa diciamo nel grido di sq, l’importante è che sia urlato il più possibile.
Portiamo l’uniforme perché unisce e non la divisa perché divide.
Piangiamo ai passaggi, alle partenze, alle cerimonie.
“Signor fra le tende schierati” ci faceva venire i brividi ogni sera.
Ci mettiamo la mano davanti la bocca e facciamo il verso degli indiani quando il gioco finisce.
Abbiamo le spalle segnate dallo zaino.
Due stracci colorati possono diventare qualsiasi vestito per qualsiasi lancio.
Mangiamo alla trappeur e ci sembra la cosa più buona del mondo.
Intorno a un fuoco e sotto un cielo stellato sappiamo divertici.
Il lunedì a scuola dormivi perché all’uscita non avevi dormito bene.
Anche sotto la neve in pantaloncini corti.
Quando vediamo i nostri lupetti diventare capi ci sentiamo orgogliosi.
Non vediamo l’ora di indossare con orgoglio il fazzolettone.
Quando tornavi a casa tua madre sperava di buttare te in lavatrice prima dei vestiti.
Questo ban nel mio gruppo lo facciamo cosi.
A messa per fare la pace allarghiamo il mignolo.
Ma Akela è il tuo vero nome?
Il fazzolettone ci ricorda solo momenti belli e indossarlo ci emoziona.
Scout una volta, scout per sempre.
Quando dici stasera c’è CO.CA. la gente pensa male.
Facciamo le due di notte a riunione e il giorno dopo mica è festivo.
Cuciniamo nei bidoni e mangiamo sui refettori.
Mentre ascoltiamo i lunghi discorsi dei capi, con il legnetto scaviamo il gran canyon.
Nasciamo sulla pista, cresciamo sul sentiero e maturiamo sulla strada.
Ci sentiamo sempre dire “Ma chi te lo fa fare?”
Al campo estivo montiamo alza bandiera di 16 metri.
L’ultima notte di campo non si dorme, e quelle prima poco o niente.
“No, non c’è la faccio più” e poi arriviamo in vetta e ci sentiamo come non mai.
Se oggi sono quel che sono è merito degli scout.
Per noi fratellini e sorelline.
Per noi esploratori e guide.
Per noi rover e scolte.
Per noi capi.
E per chiunque abbia promesso “Se Dio vorrà per sempre”
 
(di Marco VENZA)
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Reggina – Genoa

REGGINA – GENOA 2-1

Una SQUADRA, uno STADIO, una CITTA’❗
E’ la vittoria di un POPOLO: il popolo AMARANTO ❤️

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40 anni di laurea

Ebbene si: sono passati 40 anni esatti da quando, il 2 novembre del 1982, erano grossomodo le 17,45, venivo proclamato dottore in Medicina e Chirurgia. Diventare “dottore”, cioè colui che ha il compito primario di salvaguardare la vita e curare i suoi pazienti, il giorno della commemorazione dei defunti non mi sembrava tanto adeguato, ma l’euforia di quel giorno la ricordo ancora. Soprattutto ricordo il sorriso di mio padre, la sua soddisfazione e, per me, una ulteriore gratificazione, avendogli fatto un bellissimo regalo: io, figlio di ferroviere, ero diventato un medico e nei 6 anni canonici del corso di laurea.
Ne sono successe tante di cose. Sicuramente non sono la stessa persona di allora, non ho più l’entusiasmo di 40 anni fa. Ma non sono cambiato solo io, mi sembra sia cambiato il concetto stesso di medicina. Ho sempre pensato che il centro del nostro lavoro, che nonostante tutto continuo a considerare “il lavoro più bello del mondo”, sia il paziente, che va seguito in tutto e per tutto. Se un malato si rivolge ad un medico, che sia io o qualunque altro collega, noi diventiamo responsabili di tutto il suo percorso di cura e dobbiamo farcene carico, anche avendo l’umiltà di riconoscere i nostri limiti e coinvolgendo, se del caso, un altro collega che nel campo sia eventualmente più bravo di noi. E questo non significa “scaricare” il paziente, ma accompagnarlo, rimanendogli accanto, in questo nuovo percorso
Purtroppo, nel tempo, il mio idealismo si è scontrato con la sempre più evidente privatizzazione della Medicina. Per carità, non facciamo i medici per la gloria, ma non è ammissibile che esistano pazienti di serie A, di serie B o di serie inferiori, secondo che siano totalmente paganti, assicurati, e qui la considerazione dipende dalla serietà e soprattutto dagli onorari che l’assicurazione riconosce, o a carico del sistema sanitario nazionale, parzialmente (pagano il ticket) o totalmente (ticket esenti). E’ inevitabile che le strutture ospedaliere, oggi divenute “Aziende Ospedaliere”, debbano produrre profitto: una “azienda” non può lavorare a lungo in perdita. Ma il profitto non deve essere prodotto sulla pelle della gente, anzi, della “povera gente”. E soprattutto, il paziente deve essere sempre rispettato: è una persona, non un numero di letto o una patologia.
Fortunatamente esistono delle isole felici. Quasi un mese fa ho passato il guado, diventando io paziente, essendo stato sottoposto ad un intervento programmato, ironia della sorte di pertinenza ortopedica. Mi sono rivolto ad un amico, prima che collega, in cui ripongo massima fiducia, sia professionalmente che umanamente, il prof. Joe Logroscino, che esercita adesso presso l’Ospedale San Salvatore a L’Aquila. Sono stato ricoverato in un reparto a misura d’uomo, in cui personale sanitario, infermieri e OSS (operatori socio-sanitari, per chi non è del mestiere) trattano tutti i pazienti con una disponibilità assolutamente ammirevole, da indicare come esempio. Da L’Aquila sono stato trasferito per la riabilitazione post-operatoria al CEMI 4 del Gemelli. Un reparto dove mi sono sentito quasi a casa, tanto è la sollecitudine, la sensibilità che medici, infermieri, OSS e fisioterapisti dimostrano nei confronti dei ricoverati. Qualcuno potrebbe pensare che in entrambe le strutture io possa essere stato facilitato dal mio essere medico e quindi trattato con un occhio di riguardo. Assolutamente no, le attenzioni nei miei confronti erano del tutto simili a quelle verso gli altri “compagni di sventura”
Bisogna saper cogliere gli aspetti positivi di tutte le nostre esperienze, belle o brutte che siano. Ed io credo che per un qualsiasi operatore sanitario, medico, infermiere, OSS, fisioterapisti e chi più ne ha più ne metta, la sventura di una malattia, e quindi guardare il mondo da “sdraiato sul lettino”, sia una enorme possibilità di crescita, perchè da la possibilità di comprendere, vivendolo sulla propria pelle, ciò che il paziente si aspetta da noi. Ma sarebbe altrettanto formativo che i politici di tutti gli schieramenti, che in questi anni hanno massacrato la sanità pubblica, così come i vari manager che gestiscono le Aziende Ospedaliere o le Aziende Sanitarie Locali, possano avere anch’essi il “piacere” di questa esperienza, ma vissuta non nella bambagia di una clinica privata o nelle stanze a pagamento dei vari Ospedali, ma in corsia, come la gran parte degli “umani”. Mi sentirei di scommettere che molte cose cambierebbero
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