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Omini ominicchi e quaquaraquà
Il giorno della civetta di Leonardo Sciascia. Questo è il brano in cui il padrino mafioso Mariano esprime il suo rispetto per il protagonista del romanzo, il capitano Bellodi:
«Io ho una certa pratica del mondo; e quella che diciamo l’umanità, e ci riempiamo la bocca a dire umanità, bella parola piena di vento, la divido in cinque categorie: gli uomini, i mezz’uomini, gli ominicchi, i (con rispetto parlando) pigliaincxxo e i quaquaraquà. Pochissimi gli uomini; i mezz’uomini pochi, ché mi contenterei l’umanità si fermasse ai mezz’uomini. E invece no, scende ancor più giù, agli ominicchi: che sono come i bambini che si credono grandi, scimmie che fanno le stesse mosse dei grandi.
E ancora più giù: i pigliaincxxo, che vanno diventando un esercito. E infine i quaquaraquà: che dovrebbero vivere come le anatre nelle pozzanghere, ché la loro vita non ha più senso e più espressione di quella delle anatre. Lei, anche se mi inchioderà su queste carte come un Cristo, lei è un uomo.»
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Pubblicato in politica
Perchè sognare?
Da autore sconosciuto, ritrovato spulciando fra vecchie carte ritrovate in un cassetto
PERCHÉ SOGNARE
Perché sognare realtà migliori
quando possiamo esserne gli autori?
Perché sognare pace
quando possiamo smettere di fare guerra?
Perché sognare domani felici
quando oggi possiamo essere sereni?
Perché sognare la caduta di tutti i muri
quando possiamo creare ponti?
Perché sognare cibo per tutti
quando possiamo evitare di sprecare?
Perché sognare dignità universale
quando possiamo rispettare tutti?
Perché aspettare di essere migliori
quando possiamo già oggi essere il meglio di noi stessi?
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Omelie diverse per mondi diversi
E’ finita, finalmente, mi permetto di aggiungere, una settimana dominata dalla scomparsa di Silvio Berlusconi, assunto a modello di vita nella folle corsa alla totale adulazione, a mio modesto avviso legata solo al tentativo, in puro stile “avvoltoio”, di accaparrarsi i suoi elettori. Lungi da me l’idea di aggiungermi ai vari politologi di ogni estrazione che si sono sbizzarriti nelle più diverse interpretazioni di 30 anni e passa di berlusconismo, tacendo su tutte le ombre che hanno avvolto la vita del Cavaliere e che, purtroppo, resteranno misteriose e senza risposta. Mi ha invece molto colpito l’articolo edito su “La Repubblica” di oggi, a firma Concita De Gregorio che , fondamentalmente, mette a confronto e in contrapposizione “l’apparire” o “l’essere”, “la forma” o “la sostanza”, “la spettacolarizzazione” o meno della propria vita
I MONDI DI ZUPPI E DELPINI
di Concita De Gregorio
Il destino, qualunque cosa sia e chiunque lo governi, ci vede benissimo. Dev’essere per questo che con generosità e pazienza estreme ha messo di fronte alla nostra balbuzie e alla nostra miopia — alla nostra difficoltà di interpretare il tempo — uno spettacolo senza precedenti, anzi due, all’unisono. Due omelie, due teatri. Due riti in chiesa a distanza di pochi chilometri e ore. Come se fossero lì per dire uno dell’altro, illuminarsi a vicenda: due idee di mondo, opposte e coeve. Un discorso — mite — parlava con dolore di un “mondo sguaiato, di vanagloria che riduce l’amore ad apparenza”. L’altro — assertivo — di “gesti simpatici”, di “godere il bello della vita, essere contento senza troppi pensieri”. Uno di “essere vicini alla marginalità, vedere il mondo dalla parte dei poveri”, della “pazienza del rammendo”, per ogni strappo ce n’è uno, della “fatica del cammino”. L’altro di “fare affari, non fidarsi degli altri”, “vincere, arrischiarsi in imprese spericolate”, “fare affari”, di nuovo: “Guardare ai numeri e non ai criteri”. Non ai criteri. Quel che conta è il risultato, non come ci si arriva. Quel che conta è guadagnare, vincere.
Nessuno sceneggiatore avrebbe saputo mettere in scena due funerali così, nella stessa settimana, due rappresentazioni plastiche della battaglia di idee e di progetti che ha opposto per decenni due grandi protagonisti della vita politica italiana. I necrologi coi loro cognomi alternati sui giornali, aggettivi antitetici. La distanza vien da dire antropologica, etica ed estetica, degli invitati fra i banchi. Sono morti a distanza di pochi giorni Silvio Berlusconi, non serve indugiare nella biografia, e Flavia Franzoni, docente, esperta di metodi dei servizi sociali e per oltre cinquant’anni moglie di Romano Prodi: anche lui più volte Presidente del Consiglio, leader dello “schieramento avverso” a quello di centrodestra, l’unico ad aver sconfitto Berlusconi nelle urne, due volte. Berlusconi e Prodi hanno rappresentato per un tempo molto lungo due possibili modelli di governo del Paese. Non c’è dubbio che oggi abbia prevalso il modello berlusconiano. Governa infatti la destra che lui ha contribuito a portare a Palazzo Chigi, restandone fino all’ultimo alleato. Non c’è dubbio, altrettanto, che la “nuova sinistra”, quella in sintesi di Elly Schlein, sia figlia politica di Prodi. La storia non è finita qui, insomma:
gli eredi e le eredi scriveranno il seguito.
Ma le omelie, dicevamo. Prima di tutto gli oratori. A Milano, in Duomo, di Berlusconi ha parlato l’arcivescovo Mario Delpini. Uomo cresciuto nei cortili nei dormitori e nelle aule dei seminari, prima da alunno poi da docente infine da rettore, tutta una vita nei collegi e nelle scuole cattoliche dedicate alla formazione del clero. Nominato vescovo di Milano da Benedetto XIV, confermato da Francesco. A Bologna ha parlato don Matteo Zuppi, prete di strada, animatore di mense e rifugi dei poveri, formato alla comunità di Sant’Egidio, dedito alla cura degli ultimi, oggi presidente della Cei: nominato da Papa Francesco, di recente suo emissario nella difficile trattativa di conciliazione fra Russia e Ucraina. La guerra di invasione. Gli invitati alla cerimonia: a Milano il mondo Mediaset, gli eredi della concessionaria di pubblicità Publitalia 80 da cui ogni fortuna è nata, il Milan, naturalmente, le bionde soubrette i “volti” e i giornalisti delle sue tv, l’emiro del Qatar. Sergio Mattarella, trattandosi di Funerali di Stato e di lutto nazionale decretato dal governo Meloni, seduto assai silenzioso accanto al ricchissimo emiro. Vedove ufficiali almeno quattro, decine invece quelle non censite — care amiche. A Bologna la sinistra di allora e di oggi, quella in cui è riposta la strenua speranza di un’alternativa eventuale, professori, accademici, infermieri degli ospedali e volontari del terzo settore, maestre, disabili, cittadini semplici, amici d’infanzia del tutto anonimi, la numerosissima famiglia:
una corona di figli e nipoti tutti generati da un solo matrimonio, una sola lunghissima storia di complicità intellettuale e di amore.
L’omelia di Delpini aveva il passo e il tono di un’indulgenza plenaria. L’assoluzione da ogni peccato. La comprensione dell’umana debolezza, non sono gli uomini a dover giudicare: Dio accoglie i peccatori. Fondata lessicalmente sulla ripetizione, sull’allitterazione, in qualche modo ipnotica: diceva, ad ogni passo, “è in Dio il giudizio”. Capitolo primo: il desiderio di vita. Era un uomo esuberante, diciamo così. “Vivere e non sottrarsi alle sfide, agli insulti, alle critiche: continuare a sorridere, sfidare, contrastare”. Sfidare.
Capitolo secondo: il desiderio di “amare ed essere amato”. Certo, chiunque vuol essere amato. Dipende come. Se con la “manutenzione dell’unione” — dice Zuppi — o con l’accumulazione, la continua incessante sostituzione della fonte di consenso amoroso. Assolto anche qui, l’umano narcisismo. Chi non lo capisce? L’uomo che “vuol essere contento e ama le feste”, le cene eleganti le ragazze con lui gentili, le serate “in simpatia”, le battute, che ridere. Assolto, nel nome di Dio. E poi l’uomo d’affari. Deve vincere, un uomo d’affari. Le “imprese spericolate” — qualunque cosa significhi, a spanne intuiamo cosa — le opacità, le alleanze (ma è “un uomo d’affari”), la ribalta permanente, essere “di parte”. Contano i numeri, non i mezzi. Non i compromessi: il risultato. Tutto perdonato. Nel nome di Dio. “Celebriamo il mistero del compimento”.
A Bologna quel “mondo sguaiato di vanagloria” è nell’omelia di Zuppi il metro che calibra il valore del suo opposto. Di chi lavora al rammendo, alla manutenzione dell’unione, alla tutela di chi resta indietro e non vince mai. La cura di chi perde, in questa gara dove solo chi ha soldi comanda e non importa come li ha fatti, i soldi: quello è il mistero (mica tanto) del compimento. Di Flavia Franzoni Zuppi ricorda la mitezza nella radicalità. L’ostinazione a restare dove c’è qualcuno che esce di strada. “Restare nei luoghi dell’umanità”, in quelli costruire soluzioni. Riparare i guasti, avere pazienza, “essere bussola” per chi cerca il senso di una vita dove non c’è festa ma fatica. Sostenere la fatica. “L’amore vero non si vende e non si compra, non possiede niente e per questo possiede tutto”. Che altro c’è da dire, serve altro? Non si compra. Forse sì, forse bisogna esortare a non dimenticare. Non cedere alla lusinga del successo, se e quando arriva, con questo cancellando il pezzo di vita che ti ha condotto fin li, non eliminare i testimoni per il favore della nuova gradita telecamera. Forse questo, potremmo cominciare a spiegare meglio ai figli influencer: non è un challenge, la vita. È un cammino e tutto resta, tutto conta — in quel cammino. Non lasciare indietro nessuno, voltarsi a cercare con lo sguardo chi ha inciampato. Andarlo a riprendere. Insomma. Due omelie, due chiese. Due discorsi solenni, entrambi da opposti pubblici applauditi. Però contano, i criteri. Questo bisognerebbe sottolineare. Conta cosa fai, che risultati ottieni, ma anche come li ottieni. È cruciale, come. Due Italie, due modelli, un solo futuro. Dipende da quale strada vogliamo indicare. Da quale omelia partire. Quale sentiero, quale esempio.
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