Ricordo del terremoto del 1908

Di Lidia Barone: “Quando mia nonna fu svegliata dal terremoto, alle 5.20 del 28 dicembre 1908, la casa si era già aperta come una pesca troppo matura: metà era crollata su una parte della famiglia, l’altra era rimasta in piedi. Così mia nonna, di anni 11, divenne in 37 secondi (tanto durò la scossa) capofamiglia in via temporanea: se Turi, di anni 14, al momento sepolto dalle macerie del soffitto, fosse sopravvissuto, sarebbe stato lui l’uomo di casa. Per il padre, come mia nonna ebbe modo di constatare dopo aver affannosamente tentato di togliergli di dosso calcinacci e travi, con l’aiuto delle sorelle Nina, di anni 9, e Tota, di anni 6, non c’era ormai molto da fare: morì dopo un paio di ore. La mia bisnonna ebbe la fortuna di morire all’istante, schiacciata da travi e tegole con i due figli minori. La casa era al terzo piano, quindi le bambine non riuscirono a scendere a terra, e si misero ad aspettare che qualcuno le tirasse giù. Mia nonna ricordava, ma chissà se è vero, che passò di lì uno zio paterno, e che tutt’e tre si misero a gridare, ma lo zio alzò appena gli occhi e continuò a camminare. Le bambine aspettarono fino alla mattina del 29, quando i marinai della Marina imperiale russa le presero in braccio e le portarono via. Mia nonna, nella sua veste di capofamiglia, non volle andarsene prima che il fratello fosse tirato fuori dalle macerie: quando lo disseppellirono aveva il viso nero e tumefatto, la bocca e il naso pieni di terra e le costole rotte, ma era ancora vivo. Così mia nonna raggiunse le sorelline, mentre Turi rimase ad aspettare che la prima nave ospedale attraccasse, all’alba del 30 dicembre. Tutt’e tre erano ancora in camicia da notte, ma erano riuscite a racimolare qualche coperta e se l’erano buttata addosso. I russi, che scavano senza sosta per disseppellire morti e feriti, avevano distribuito tutto il cibo di cui disponevano, ma ormai chi era rimasto vivo non mangiava da due giorni, e qualcuno cominciava a rubare quel poco che c’era a mano armata. Rubavano a man bassa anche gruppi di contadini, arrivati dall’entroterra per razziare tutto ciò che si poteva trovare tra le macerie delle case più ricche, mentre i detenuti evasi dalle carceri crollate frugavano tra le rovine della Banca d’Italia. La legge marziale, immediatamente instaurata, portò a molte esecuzioni sul luogo, senza distinzioni tra ladri di gioielli, ladri di pane o sopravvissuti che rovistavano nelle macerie delle proprie case. Le tubature del gas erano state divelte dal terremoto: bracieri e cucine economiche avevano fatto il resto, e in città divamparono incendi dovunque Le spiagge, devastate dal maremoto, erano coperte da scheletri di barche, macerie e quintali di pesci morti. Il mare, a Pellaro e Lazzaro, due borghi a sud della città, si riprese per sempre decine di metri di costa. Ancora oggi, sui fondali, si vedono i pavimenti a mosaico delle case distrutte. Migliaia di corpi furono trascinati al largo, e i giornali dell’epoca, dopo settimane, riportarono cronache raccapriccianti di membra umane trovate nello stomaco degli squali pescati nello Stretto. Il governo Giolitti deliberò che le macerie di Reggio e Messina fossero cannoneggiate e le due città ricostruite altrove.
Mia nonna fu imbarcata con le sorelle su una grande nave, con un cartellino con nome e cognome al collo: la comunità di emigrati calabresi e siciliani in America si era offerta di adottare agli orfani del terremoto, e la nave stava per salpare. Quando mia nonna seppe che stava andando in America per trovare nuovi genitori, prese per mano Nina e Tota e le fece scendere di corsa, perché non potevano partire senza Turi. Però non sapevano cosa fare: la città brulicava di orfani, e ognuno già non sapeva come fare per sfamare i propri figli, figuriamoci quelli degli altri. Intanto erano arrivate le prime colonne di soccorso da Cosenza e le corazzate da Napoli, erano arrivati Vittorio Emanuele e la regina Elena su una nave ospedale. Appena un minimo di collegamenti furono ripristinati, con mezzi di fortuna da Gioia Tauro in giù, arrivò in città l’ingegnere Marchi, che mio nonno aveva conosciuto nel corso di un difficile collaudo, e con cui era rimasto in rapporti di buona amicizia. L’ingegnere viveva a Parma, da dove aveva chiesto invano notizie dell’amico. Quando gli dissero che nessuno aveva modo e tempo di stilare liste delle vittime, e che i registri anagrafici erano andati perduti prese un treno e, in qualche modo, arrivò in città, dove gli dissero che sì, Gioacchino Vazzana era morto con la moglie e due figli, lasciandone altri quattro che nessuno voleva, neanche i parenti ancora vivi. Così l’ingegnere, che aveva lasciato la moglie e le figlie per convivere con una ragazza di cui si era innamorato quando lavorava come operaia nella sua fabbrica di burro e con cui aveva avuto un altro figlio, che era considerato un libertino e un pubblico peccatore e, in quanto tale, era stato messo al bando dalla buona borghesia di Parma, fece quello che imponeva l’umana pietà: disse a mia nonna di tenere per mano Nina, prese Tota in braccio, cercò un mezzo per arrivare a Gioia Tauro, e partì per Napoli, dove comprò vestiti e biancheria per le bambine e raggiunse Turi, che era arrivato con la nave ospedale e sarebbe rimasto ricoverato per parecchi mesi. Arrivarono a Parma: le bambine entrarono in collegio, ma passavano le vacanze in casa Marchi, e Turi entrò all’Accademia militare. Mia nonna tornò a Reggio dopo il matrimonio, e quando mio nonno costruì la casa dove adesso abito, pretese che fossero usate le più avanzate tecniche antisismiche. Speriamo che funzionino anche adesso.”

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