A 16 anni ho deciso di fare il medico. Sapevo che sarebbe stato un lavoro che poteva aprire grosse prospettive di guadagno, ma non era questo lo scopo della mia scelta. Mi affascinava l’idea di poter capire dai sintomi quale potesse essere la malattia, fare la diagnosi corretta e riuscire, con le cure appropiate, a guarire una persona. Era anche un mestiere che, forse con più completezza, mi avrebbe consentito di occuparmi pienamente degli altri, di completare quel percorso ideale che stavo percorrendo allora, lo scoutismo. Studiando medicina mi sono sempre più appassionato e, una volta laureato, avendo iniziato a mettere in pratica le mie conoscenze, mi sono convinto che avevo fatto bene, facevo il mestiere più bello del mondo. Il caso risolto, l’intervento riuscito, la gratitudine negli occhi del paziente che sentiva che stava meglio e che non riusciva a ringraziarti in altro modo ed insieme i fallimenti, i risultati insoddisfacenti, la sensazione di impotenza che ti assale quando devi arrenderti sapendo che non puoi fare altro e che il destino del tuo paziente è ormai ineluttabilmente segnato. Tutti coloro che indossano il camice conoscono questa miscellanea di sentimenti. C’era una forza interiore che ci spingeva a stare in Ospedale tutto il giorno durante gli anni della specializzazione e poi a studiare una volta tornati a casa, una forza che oggi si sta spegnendo. Forse sono troppo pessimista, sarà l’età che avanza, direbbe un caro amico, ma osservando il pianeta Sanità dalla parte dei medici lo spettacolo non è dei migliori.
Intanto viviamo sotto la spada di Damocle della possibile denuncia di qualunque paziente che ha ben 10 anni di tempo per denunciarti, magari quando la tua assicurazione professionale è scaduta e la nuova assicurazione non ti copre per il pregresso . E’ consentita una pubblicità aggressiva che spinge a ritenere che qualunque evento negativo durante un trattamento medico o chirurgico sia colpa nostra ed incita i pazienti a richiedere i danni. Il bello è che per il paziente, tolte le spese per il legale, il rischio è zero o quasi. Sono io medico che devo dimostrare di aver fatto tutto secondo le linee guida e non è lui, il paziente stesso, che deve dimostrare fuori di ogni dubbio che io abbia sbagliato per imperizia, imprudenza, negligenza. Se sono condannato pago, se sono assolto il paziente non risponde della sua denuncia infondata. E le assicurazioni, ovviamente, ci sguazzano: io medico sono obbligato a stipulare una polizza, ma l’assicurazione può decidere di non trattare queste polizze o di mettere dei premi allucinanti che, per specializzazioni come la mia che è fra le più rischiose (ortopedia), superano spesso i 10.000 euro annui (avete letto bene, diecimila euro annui).
E poi devi stare attento a quel che prescrivi, specie se lavori in strutture pubbliche. Le ASL ti tengono sotto tiro e sono pronte a chiederti conto se hai superato il budget di spesa programmato, se hai prescritto quel determinato farmaco piuttosto che talaltro che sarebbe costato molto meno (non ti chiedono quale sarebbe stato più efficace), vogliono capire perchè hai fatto fare al tuo paziente quel determinato esame strumentale che ha fatto sballare i conti, senza pensare che, a volte, quell’esame strumentale o quella terapia innovativa ma costosa, hanno contribuito a salvare una vita umana. Ma oggi questo non sembra avere importanza nell’ottica dei conti in ordine. Forse, se al nostro posto assumessero dei ragionieri, avrebbero risultati eccellenti: “Caro signore, lei ha dei sintomi per cui c’è una remota possibilità che abbia un cancro. Per sapere se è così occorre fare una risonanza con mezzo di contrasto, ma costa troppo, 800 euro. Posso offrirle una ecografia, non è così precisa, ma costa un decimo e il bilancio entrate/uscite è salvo”. Se continuiamo con questo andazzo, questo dialogo rischia di non essere così surreale.
Penso ai colleghi mutualisti che ogni giorno devono combattere la loro battaglia non solo contro le malattie, ma anche contro regole assurde, lacci economici, richieste dei pazienti che minacciano di “cambiare medico” e di creare loro, comunque, un danno economico. Il paradosso è che, spesso, i censori sono altri medici, altri colleghi che ormai hanno perso il significato del rapporto con il malato, sono bravissimi a ragionare con il senno di poi e sono inflessibili quando devono giudicarti …. poi però, se i pazienti diventano loro, i loro familiari o gli amici più cari, magari non sono più così inflessibili e gli esami prima superflui diventano assolutamente indispensabili.
E poi vediamo il metro di giudizio. In Ospedale occorre rispettare il budget assegnato al tuo reparto, non puoi sforare. Il paziente operato di protesi d’anca non si è ancora ripreso bene? Non importa, sono passati 6 giorni, la Regione non ci paga più e se lo teniamo ancora ricoverato ci rimettiamo noi. Il paziente viene dimesso, salvo magari essere ricoverato dopo qualche giorno per qualche complicanza che non si sarebbe verificata se fosse stato tenuto sotto controllo per un tempo più lungo. Non si è giudicati per i risultati professionali ottenuti, ma se hai contenuto i conti, se la tua AZIENDA (dimmi tu se un ente che si occupa della salute delle persone può chiamarsi con un nome che evoca profitto, non servizio) economicamente ci guadagna con il tuo operato. Magari il Professor X è un bravissimo chirurgo che si occupa del trattamento delle malformazioni complesse ed è uno dei pochi ad eseguire determinati interventi. Ma questi interventi durano tanto, richiedono attrezzature e materiali molto costosi, comportano tempi di ricovero lunghi, fuori dai limiti imposti dai DRG (per i non addetti il sistema di retribuzione degli ospedali per l’ attività di cura, introdotto in Italia nel 1995, per cui gli interventi vengono retribuiti non più «a piè di lista», cioè in base alle giornate di degenza, ma «a prestazione», in base ad una stima predefinita del costo). Nello stesso Ospedale opera un altro medico, bravissimo nel fare interventi di piccola chirurgia che hanno costi di materiale di consumo minimi, tempi di ricovero ridotti, alti DRG. Secondo voi chi sarà privilegiato dall’Ospedale? Un premio a chi indovina
Noi specialisti ambulatoriali che lavoriamo nelle strutture pubbliche, oltre i limiti di spesa, abbiamo anche una regola efferata, quella delle “4 prestazioni orarie”. Non importa la difficoltà e la complessità del caso, teoricamente puoi dedicare ad ogni paziente un massimo di 15 minuti. Chiaro che, almeno per quanto mi riguarda, questa regola non vale un fico secco: quando visito, l’orologio è bandito; se devo stare un’ora con il paziente sia per fare diagnosi che per spiegargli il suo problema sto un’ora. Provate a fare, ad esempio, una visita oculistica in 15 minuti, dovendo fare anche un esame del fondo o una accurata misurazione della vista. Per restare nella mia specializzazione, provate ad inquadrare un politraumatizzato, vedere gli accertamenti strumentali (oggi tutti su CD), fare un discreto esame obiettivo per capire come sta (si deve prima spogliare e dopo rivestire), prescrivere la terapia adeguata, spiegargli con parole semplici quale sia il suo problema e, soprattutto, ASCOLTARLO (un medico che non sa ascoltare, a mio parere, non è un buon medico), il tutto in 15 minuti. E’ un po’ difficile se vogliamo fare le cose per bene. Ed oggi devi fare le cose per bene, anche per far vedere che le cose nel pubblico funzionano, bisogna farsi belli con la stampa, con l’opinione pubblica.
“E’ arrivata una lettera di ringraziamento di un paziente indirizzata a te. Bravo.” “Le tue statistiche sono fra le migliori. Non preoccuparti dei tempi, anche se c’è il computer che registra le tue prestazioni.” “Puoi venire in Direzione per un parere su un caso un po’ complicato?” “Di te mi fido: ti posso far visitare mia moglie, mia madre, mio marito, mio padre, mio figlio, mia figlia, la mia fidanzata?”
Improvvisamente piomba nel nostro mondo la “spending rewiev”. Panico totale. Tutto controllato, tutto quantizzato. Magico excel che controlla tutto: numero prestazioni fatte, numero teorico in rapporto alle ore, eccedenze di ore per alcuni o piuttosto carenze di ore per altri, e quindi ore da tagliare, tagliare, tagliare. La colonna della qualità non è prevista, ma non importa: il nostro Moloch vuole solo numeri, numeri, numeri …. ed io che volevo fare il medico. Ne valeva la pena?
18 risposte a “Vale ancora la pena?”